RIPARTE LA CAMPAGNA SI SOSTEGNO ALLO STORICO RIBELLE (EX-BITTO STORICO)

BLOG UFFICIALE DEI RIBELLI DEL BITTO (SOCIETA' VALLI DEL BITTO BENEFIT)
La Società valli del bitto benefit è la forma organizzata, in grado anche di svolgere attività economica a sostegno dei produttori. Sono soci della "Valli del bitto benefit" i sostenitori (con ruoli di finanziatori/collaboratori volontari/consumatori), i produttori, i dipendenti Per associarsi basta acquistare una sola azione dal valore di 150 € per info: 334 332 53 66 info@formaggiobitto.com. Aiutaci anche anche acquistando una forma in dedica o anche solo un pezzo di storico ribelle vai allo shop online

martedì 26 luglio 2016

Abbandoniamo il nome bitto dal 1° settembre


 

Società Valli del Bitto trading spa. 

C O M U N I C A T O    UFFICIALE

Gerola alta,  23 luglio 2016

In qualità di fondatore dell'Associazione Produttori Valli del Bitto, divenuta in seguito Consorzio di Salvaguardia del Bitto Storico, e in qualità di attuale responsabile comunico che: in data odierna 23/07/16 il Presidio Slow Food Bitto Storico cessa di esistere. Verrà sostituito con un nuovo nome garantito da un marchio che è stato depositato dalla società Valli del Bitto Spa. Tale società al momento è l'unico soggetto che garantisce la sopravvivenza economica dei produttori storici.
Avviso i consumatori che dal 1 settembre 2016, al termine della monticazione, comunicherò il nome degli alpeggi che conservano i requisiti, quali unici degni continuatori di questa storia millenaria. Il nome Bitto non verrà più usato dai produttori storici e lasciato ad esclusivo uso al CTCB che tutela la DOP. Diffido i furbi e i furbetti, i quali hanno approfittato di una battaglia di civiltà per farsi passare per noi, ad utilizzare "Bitto Storico" in accostamento al nome dell'alpeggio la cui storicità è legittimata esclusivamente dal Consorzio di Salvaguardia.
Ricordo che Bitto Storico è vietato dal regolamento della DOP, era consentito in via transitoria al Presidio Slow Food Bitto Storico che ora non esiste più. A tutela dei consumatori che sostengono questa millenaria produzione comunicherò i nomi di coloro che si sono approfittati facendosi passare per Bitto Storico.
Mi auguro che questa scelta, sofferta ma obbligata onde tutelare la sopravvivenza di questa grande tradizione, scuota le coscienze al fine che il nuovo nome sia solo un estremo rimedio provvisorio Ricordo inoltre che la volontà della maggioranza dei produttori è da sempre sovrana,come dichiarato da Piero Sardo,responsabile della Fondazione Slow Food dei Presidi che sosterrà come Presidio Slow Food il nuovo nome.
Quindi da oggi dal punto di vista morale il cambio del nome è legge, dal 1 settembre 2016 con il nuovo marchio lo sarà anche commercialmente.

Paolo Ciapparelli
Fondatore Valli del Bitto trading spa


Soc. Valli del Bitto Trading spa, Via Nazionale,31 23010 Gerola Alta (So) Tel/fax 0342635665

wvvw.formaggiobittocom  info@formaggiobittocom  CFJPIVA00815750146   Bollo CEE03/1583


lunedì 25 luglio 2016

Il grande amico dei ribelli del bitto


Il rapporto tra Piero Sardo e il Bitto ribelle (si è chiamato Bitto Valli del Bitto tra il 2003 e il 2009 e Bitto storico tra il 2010 e il 2016) data al 2005. In realtà Slow food, intuendo che dietro quel gruppo di ostinati difensori della tradizione c'erano i valori che la chiocciola stava iniziando a difendere in modo organico, si era avvicinata a Ciapparelli & C sin dal 2001. Fu Giacomo Moioli, lecchese ed allora esponente di spicco della chiocciola (vice di Petrini)  a stringere i primi contatti con i ribelli.

Il presidio nacque nel 2003 quando, dalle parti del Consorzio ufficiale e delle altre organizzazioni legate all'agroindustria casearia , si chiedeva ormai apertamente di poter produrre bitto dop con i mangimi e i fermenti in bustina. La minaccia era evidente. Era la fine del bitto autentico. Bisognava correre ai ripari. Entrò in scena Piero Sardo, personaggio autorevole di Slow food, ma anche figlio di formaggiai, e quindi uno dei pochi  dentro la chiocciola che - in mezzo a tanti esperti di comunicazione - capisse  di formaggio.   Sardo interviene in una fase drammatica per i produttori storici, quando devono decidere se uscire dal Consorzio ufficiale e dalla dop. Nascono allora i ribelli del bitto. E se sono sopravvissuti sino ad oggi, non schiacciati dall'impari rapporto di forze e di risorse tra loro e il loro nemici , si deve non solo alla loro tenacia e al loro coraggio, ma anche a Piero Sardo.

Slow Food ha costruito con i ribelli un rapporto largamente basato sul ruolo di garante di Piero Sardo. Egli, rischiando in proprio, intuì che bisognava dare credito al coriaceo condottiero degli allora sedici casari ribelli. Ha difeso Ciapparelli e i suoi in innumerevoli circostanze, anche quando all'interno di Slow food qualcuno storceva il naso preferendo Presidi più "tranquilli" (e finanziati dalle istituzioni).
Dipinti come dei talebani, inaffidabili, rissosi, volubili i ribelli e il loro capo-clan, che evocava i miti celtici,  potevano apparire ‘un po’ troppo’ anche per Slow Food. Di certo Ciapparelli non era e non è un personaggio politically correct.  Nel concedergli piena fiducia Piero Sardo ha dovuto basarsi molto sul proprio intuito, sui segnali che raccontavano di persone sincere e di una causa sacrosanta, in grado di riassumere in sé tutte le ragioni di una ribellione non solo contro il sistema distorto delle Dop ma anche contro modelli economici, politici, culturali che hanno imposto all'agricoltura, alla montagna le logiche dell'agroindustria, della standardizzazione produttiva, dei numeri e delle organizzazioni controllate dall'alto.

 Non era facile trattare con Ciapparelli, ai tempi personaggio più ostico di oggi (nel tempo alla fermezza ha saputo coniugare l'ironia). Dieci anni fa il "venditore di piastrelle" (come rimarrà sempre per i suoi nemici) di sostenitori ne aveva ancora pochi ed era costretto a tenere sempre il coltello tra i denti per non cadere nelle insidie di un avversario tanto più forte. Va dato atto a Sardo di aver saputo guardare oltre i condizionamenti culturali che avrebbero forse indotto un po’ più di diffidenza per un polemico leghista valtellinese (poi la Lega passò dai proclami pro tradizione e identità alla realpolitik  e Ciapparelli si concentrò sulla sua battaglia dimenticandosi dei partiti). 

In ogni circostanza,  in undici  anni fatti di rotture e di "tavoli", di insidie, di minacce, Sardo ha  tenuto fermo questo criterio: “quello che decidono i produttori nella loro autonomia va bene anche per Slow Food”.  Un criterio che Slow food (a volte con un po' riluttanza da parte di qualche "colonnello")  ha accettato. Grazie a questa figura di "commissario straordinario per gli affari del bitto" si è potuta stabilire una linea rossa diretta tra i produttori storici e Bra, che ha consentito decisioni rapide ed efficaci nei momenti critici.  Solo così il bitto ribelle ce l'ha fatta.

Sardo è stato sempre a fianco dei produttori ribelli e la sua presenza ha sventato non poche minacce. Tra il 2007 e il 2009 vi fu un periodo di ambigue "trattative" (come nel 2014) cui Sardo partecipò sostenendo con decisione la causa dei ribelli. Nella primavera del 2008, finita la "tregua" per il Centenario della Mostra di Morbegno, le timide aperture che avevano coinvolto un sottosegretario all'agricoltura a Roma e un direttore generale della Regione Lombardia, furono dimenticate. Si tornava a chiedere la resa senza condizioni: il rientro nel Consorzio ufficiale dei ribelli. Sardo dichiarò:

La situazione del Bitto è la più critica tra tutte quelle della Dop, prima di tutto perché la trattativa non si è mai realmente sviluppata a seguito degli incontri in Ministero. Per questo in assenza di un riconoscimento della sottodenominazione e della creazione di due disciplinari distinti, procederemo al ricorso all’Unione Europea. (La Provincia di Sondrio, 8 marzo 2008).


Intanto in regione cambiò anche l'assessore. Il nuovo, Ferrazzi, dichiarò di essere deciso a risolvere il problema del bitto e aprì un tavolo. La bozza partorita dalla burocrazia regionale  denominata “Valorizzazione della Produzione del formaggio Bitto e della zootecnia di montagna” prevedeva, di fatto, lo scioglimento dell’Associazione dei ribelli e l’adesione dei singoli soci al C.t.c.b ,da cui erano polemicamente usciti nel 2005.  Su questa base la regione era disponibile a valorizzare oltre al Bitto dop ‘generico’ anche quello del Presidio Slow Food “attraverso specifiche attività di promozione e comunicazione” ma anche “attività di ricerca e formazione”. In cambio l’Associazione (e il C.t.c.b.) si dovevano impegnare a cessare ogni contenzioso : “in particolare di natura giurisdizionale nonché sotto il profilo della comunicazione, e si impegnano sulla base comune disciplinata dalla normativa comunitaria a sviluppare anche attraverso azioni sinergiche e, in ogni caso, non contrastanti e denigratorie, l’obiettivo di valorizzare l’insieme delle Produzioni del formaggio Bitto”. Sono le stesse cose che si sentono anche oggi: una strategia di inganno che va avanti dall'inizio della guerra del bitto. La Regione , il Consorzio e tutto l'ambiente agroindustriale valtellinese temevano il minacciato esposto alla UE dei ribelli e di Slow food. Ma temevano anche la campagna (allora con mezzi più limitati di oggi) di informazione ai consumatori e ai cittadini.

Quel "tavolo" del 2008 era però più pericoloso di quanto potesse apparire perché la Regione lasciava trasparire che avrebbe sostenuto generosamente i presidi Slow food se la Chiocciola avesse mollato al suo destino Ciapparelli.  Nella primavera del 2009, di fronte alla inconcludenza del fantomatico ‘tavolo’ aperto in regione - Piero Sardo che non aveva voluto neppure sentir parlare di "patti scellerati"  a danno del bitto ribelle - in qualità di rappresentante della Fondazione Slow Food per la biodiversità, inoltrava,  insieme a Paolo Ciapparelli, inoltrava  una memoria  alla Commissione Europea in merito alla modifica del disciplinare di produzione del bitto dop. La Commissione insabbiò tutto dichiarandosi incompetente.

Nell'autunno 2009 arrivarono le famose sanzioni della "Repressione frodi" , invocate dall'assessore provinciale De Stefani . Nel 2010 Slow food concesse al neonato bitto storico l'uso del marchio della chiocciola quale "scudo". Il resto è storia recente. Ma anche tutti i difficili passaggi sostenuti dai ribelli dal 2010 ad oggi sono stati seguiti con attenzione da Sardo che, poche settimane fa, era a Gerola (foto sotto).

In tanti anni una sola volta si è creata un'incomprensione con Sardo: al Salone del gusto del 2012 quando qualcuno di Slow food pensò di accettare il dixtat della regione Lombardia che non gradiva la presenza del Bitto storico  troppo vicino allo stand istituzionale.  A Ciapparelli era stato chiesto il consenso a sloggiare da dove era previsto lo stand del Presidio ed egli per non "creare problemi" accettò. Ma la notizia trapelò e finì in grande evidenza su la Provincia di Sondrio e l'Eco di Bergamo. Sardo ne fu amareggiato perché si presentava la cosa come un tradimento da parte di Slow food.  Sardo si sentì messo in mezzo, pur non essendo stato lui a ricevere la proposta "scandalosa" della Regione. Tanto era solida e sincera l'amicizia tra Sardo e i ribelli, tra Sardo e Ciapparelli che l'episodio fu presto archiviato. 

Sardo è persona che agli ideologismi antepone una sincera umanità (da non confondere con il buonismo), che non ama la visibilità, ma che opera con un'autorevolezza che gli viene dalla coerenza e dal credere realmente nei valori proclamati. Incontrare sulla propria strada un personaggio così è stata per i ribelli una delle fortune più grandi. Grazie Piero per quello (tanto) che hai fatto e che farai per la causa del bitto buono pulito e giusto.



Bitto ribelle: grandi estimatori

Tanti nemici, tanto onore dicevano gli antichi. Sì, ma se hai solo nemici non sopravvivi. Il bitto (ex) storico (sempre) ribelle è arrivato si ad oggi perché ha grandi amici, alcuni si sono esposti pubblicamente con dichiarazioni fulminanti. 
Tra queste dichiarazioni restano indimenticabili quelle di due personaggi che ci sono più: Luigi Veronelli e Francesco Arrigoni. Di bruciante attualità, invece, le dure e inequivocabili parole di Paolo Marchi del 2009: 

rischiano di non potere più chiamare Bitto il vero Bitto. Sarebbe come se esistesse solo il Balsamico e quello Tradizionale dovesse cercarsi un altro nome per non dare fastidio al caramello della grande industria. Vi immaginate potere chiamare auto la Duna e non la Ferrari? 

Il rischio oggi è divenuto concreta realtà. Nel frattemp0. sono passati sette anni, coloro che oggi fingono di voler salvare il bitto storico non hanno fatto nulla per aiutarlo, spesso molto hanno lavorato attivamente per distruggerlo.


Edoardo Raspelli: ‘Mi piacerebbe che si tornasse al Bitto originale, quello prodotto con più fatica, ma dal sapore inconfondibile’. (Melaverde TV su Rete 4, riferito da la Provincia di Sondrio, 12.09.2004) 

Luigi Veronelli: ‘Il Bitto, formaggio delle omonime valli, è prodotto da giugno a settembre, nei calècc, subito dopo la mungitura delle vacche di razza bruna alpina e delle rare ma indispensabili capre orobiche o della Val Gerola, con gli attrezzi d' antan: caldera in rame, spino e lira in legno. Questo e non altri il Bitto «delle Valli del Bitto*»’(Corsera 14.10.2004) 

Paolo Marchi: […]il Bitto, un capolavoro assoluto. È prodotto in numero ridicolo, alcune migliaia di forma all’anno, da latte di vacca e latte di capra orobica (è d’obbligo ma non può superare il 20%), formaggio a latte crudo, frutto del pascolo turnato (le bestie non brucano nello stesso fazzoletto) e del rifiuto di enzimi e mangimi esterni. Solo la natura, in feroce polemica e sacrosanta contrapposizione con il disciplinare della Dop, voluto e difeso da un consorzio che certifica un prodotto tra il mediocre e il dignitoso a patto di gustarlo poco stagionato. (Il Giornale 24.07. 2009) 

Francesco Arrigoni. ‘In passato il Bitto si produceva solo nelle valli del fiume e in alcuni alpeggi vicini. Nel 1996 c' è stato un colpo di mano ed è nata la Dop Bitto (Denominazione di origine protetta dell' Unione europea) che ha autorizzato la produzione in tutta la provincia di Sondrio e in alcuni alpeggi della bergamasca. Gli amatori sappiano però che il Bitto migliore è quello marchiato «Valli del Bitto*»’ (Corsera 5.10.2003)

Licia Granello ‘i produttori del bitto tradizionale e quelli del Castelmagno d’alpeggio ancora combattono battaglie solitarie contro le nefandezze dell’agroindustria, poco o niente supportati dalle istituzioni (con la solita eccezione di Slow Food). Risultato: insieme a mucche e capre a bassa resa quantitativa – ma altissima qualitativa! – di latte, rischiamo di far scomparire gli straordinari formaggi prodotti a un passo da Francia, Svizzera, Austria, Slovenia’.(La Repubblica 13.09.2009)

Paolo Marchi:’ Il problema è che se tutte le novità dovessero divenire esecutive, i produttori di Bitto Storico, l’unico per il quale sono giustifica te pazzie, poche centinaia di forme che nascono negli alpeggi in quota delle Valli del Bitto, spaccature laterali rispetto alla Valtellina, rischiano di non potere più chiamare Bitto il vero Bitto. Sarebbe come se esistesse solo il Balsamico e quello Tradizionale dovesse cercarsi un altro nome per non dare fastidio al caramello della grande industria. Vi immaginate potere chiamare auto la Duna e non la Ferrari? No? Invece sarebbe così’. (Newsletter 252 del 19.02.2009 Identità Golose)

Paolo Marchi: "Il Bitto autentico è rimasto vittima della sua bontà e dell'avidità dell'uomo. Tanto si è fatto a livello politico locale che un brutto giorno tutta la provincia di Sondrio è diventata luogo di produzione del Bitto, una bestemmia come se la zona vocata per il Culatello di Zibello venisse estesa a Mantova, Piacenza e Cremona con la scusa che tanto è sempre terra padana". Il Giornale 12.11.2009 

Francesco Arrigoni: ‘Patto per il Bitto autentico, firmano sedici produttori. [titolo]E' stato un evento storico. Una specie di giuramento di Pontida del formaggio quello fatto ieri ad Albaredo per San Marco, uno dei paesi sopra Morbegno (Sondrio) attraversati dal fiume Bitto. Un patto sottoscritto dai casari delle Valli del Bitto, cioè da quei sedici alpeggiatori che caricano le malghe della zona storica del Bitto, il più famoso e longevo formaggio delle Alpi. L' Associazione Valli del Bitto* è nata in risposta al disciplinare del Bitto a Denominazione di Origine Protetta del 1996, che di fatto ha consentito la produzione del Bitto in tutto il resto della Valtellina’.Corriere della Sera, 22.11.2003

* Nota - "Valli del Bitto" è il marchio ustilizzato - dopo un contezioso durato anni e un accordo con le istituzioni locali dal 2003 al 2006. L'utilizzo benne negato nel 2006 da una diffida ministeriale (a proposito di "accordi sul bitti...).








sabato 23 luglio 2016

Ribelli del bitto all'opera nel loro habitat


Siamo ormai in piena stagione d'alpeggio. Che senso avrebbe la battaglia dei ribelli del bitto  (produttori dell'ex bitto storico e i coproduttori che li sostengono attivamente in vari modi) se non parlassimo dei valori, dei significati, dei contenuti della realtà che difendiamo?
Il modello dei ribelli del bitto è un modello ecosostenibile nei fatti non nelle parole. Alcuni alpeggi dove si produce il formaggio storico ribelle non sono raggiungibili se non con i quadrupedi someggiati come Cavisciöla, nella foto, caricata da Alfio Sassella, vice-presidente del Consorzio per la salvaguardia dell'(ex) bitto storico. Altri sono solo in parte raggiungibili con mezzi meccanici.
Qui a Caviscöla si fa tutto a mano, si usa energia rinnovabile vera, quella delle braccia e delle zampe dei cavalli. Eco-sostenibile è tutto ciò che è sostenibile dal punto di vista ecologico, ovvero tutto ciò che può essere portato avanti quasi indefinitamente e che non danneggia in alcun modo l’ambiente. Anzi, lo migliora! Come qui perché il pascolo è ben curato, con un rapporto equilibrato e tra crescita dell'erba e animali che la brucano e ciò massimizza la biodiversità (che comprende piante, insetti, ragni, uccelli). Dove l'animale pascola secondo un saggio criterio "restituisce" con le sue deiezioni buona parte dei principi nutritivi dell'erba brucata. E anche questo è fondamentale per mantenere un buon pascolo, bello da vedere e ricco di vita. E in grado di dare formaggio della massima qualità.

Qui a Cavisciöla si difende la biodiversità sul serio perché le vacche sono OB, vera bruna alpina, non la turbobrown  made in Usa, ottenuta incrociando la bruna europea con razze più lattifere (che ai contadini hanno fatto credere fosse la stessa cosa "migliorata"). Qui le capre sono tutte bellissime orobiche, autoctone al 100% dal pelo fluente variegato di più colori e sfumature e dalle lunga corna ritorte.  Quando scendono di corsa per i  ripidi pendii , giù dalle coste dove brucavano le essenze aromatiche, richiamate dagli abili fischi e richiami di Alfio, appaiono come una visione primordiale, con il pelo scomposto dal vento, caracollando al suono di cento campanacci in risonanza tra loro. Spettacoli che da soli giustificano la camminata (e consentono di fare foto grandiose sapendo cogliere l'attimo) . Alfio, con naturalezza, senza tante grida, sa governare da maestro le sue capre. E non è facile.

Ovviamente per chi sale a Cavisciöla ci sono tante altre cose interessanti da osservare: la mungitura, la lavorazione del latte. Se, alla sera, desiderate assistere alla lavorazione dello storico ribelle (più lunga di quella del bitto dop "facilitato") ricordate di portare la lampada frontale o almeno una torcia (perché si finisce che è buio). Se siete sportivi e avete il sacco letto potete sistemarvi, mettendovi d'accordo con Alfio,  in una baita al momento non utilizzata e passare la notte sperimentando come si dorme in alpe.

Potete arrivare a Cavisciöla sia dal Passo di San Marco che dal rifugio Madonna delle nevi di Mezzoldo. I sentieri Cai sono ben marcati. Dovete salire più in alto della Casera di Cavizzola, alla baita Piedavalle a quota 1944. Il percorso dalla Madonna delle Nevi è descritto in questo fotoracconto (VAI A VEDERE) di cinque anni fa.  Alfio Sassella e la moglie Sonia Marioli (la casara) accolgono calorosamente gli amici dei ribelli del bitto che salgono a trovarli (compatibilmente con gli orari e le mansioni da svolgere). 

Il percorso la passo di San Marco è indicato nella mappa 

Buona passeggiata

giovedì 21 luglio 2016

Varenne e lo Storico formaggio ribelle

metafore da una Valtellina fagocitata e ingessata da un modello agroindustriale, espressione del peso di ipertrofici  istituti bancari e di una ipertrofica catena di ipermercati (una Valtellina dove le espressioni di un'economia legata alla vocazione territoriale sono schiacciate)

In un post precedente (vedi comunicato 20.07.16) abbiamo paragonato lo Storico formaggio dei ribelli del bitto al più grande trotter di tutti i tempi: Varenne. . Un paragone impegnativo perché Varenne è non solo il cavallo che ha vinto più montepremi , ma l'unico cavallo nella storia dell'ippica mondiale ad avere vinto il titolo di "cavallo dell'anno" in tre differenti nazioni: Italia 2000, 2001, 2002, Francia 2001, 2002, Stati Uniti 2001. Varenne è anche l'unico trottatore ad avere vinto le corse più importanti del mondo nello stesso anno (2001). Nel 2002 ha chiuso la carriera come corridore con un tour mondiale in cui ha frantumato tutti i record delle piste 

Lo storico formaggio dei ribelli del bitto ha frantumato i record di vendita di un formaggio (eccettuate "particolarità" come il formaggio di latte d'alce). Ma ha anche conquistato il titolo di formaggio più mediatico. Sono molti più gli articoli sugli organi di informazione cartacei e online che le forme prodotte e fa parlare di sé più che formaggi prodotti in milioni di pezzi.
Ronzino, invece (sinonimo di brocco) indica un cavallo di poco pregio. Dall'antico francese (forse) roncin. Ronzinante era la cavalcatura di Don Chiscotte (rocin, in spagnolo). 



Ci vuole altro che Varenne per trainare il pesante carro dell'agroalimentare valtellinese, appesantito dalla scelta di puntare sulla quantità a scapito della qualità nell'illusione che basta l'immagine della montagna o qualche "specchietto per le allodole" per continuare a operare con profitto in un mercato dove la produzione massificata subisce una concorrenza sempre più feroce. 



La Valtellina agroalimentare, in un contesto valligiano caratterizzato dalla presenza di due istituti bancari e di una catena di ipermercati (ovviamente ad essi legata) "fuori taglia" rispetto alle ridotte dimensioni della valle, difficilmente potrà uscire dal modello agroindustriale per dare spazio a produzioni agroartigianali indipendenti. I ribelli del bitto, che si muovono su un piano completamente diverso e del tutto autonomo rispetto alle filiere (commerciali e di potere) rappresentano, oggettivamente, un fatto eversivo. Nessuno può pensare che la guerra contro di loro sia dovuta solo a 1.500 forme di formaggio o solo ad una questione di bitto, di formaggi, di alpeggi. L'establishment vuole la resa dei conti con i ribelli perché teme che il focolaio si estenda, che i tanti (operatori economici, semplici cittadini) che non hanno il coraggio di ribellarsi a un certo "sistema") siano incoraggiati a uscire dalla dipendenza (sudditanza) a certe "filiere", seguendo l'esempio dell' ex bitto storico. 



mercoledì 20 luglio 2016

Bitto storico muore per risorgere

Nell'incredibile collezione di simboli che accompagna la più che ventennale vicenda del bitto ribelle, se ne aggiunge uno nuovo: è l'araba fenice, simbolo sin dalla civiltà egizia, di morte e risurrezione (ora trasposto all'ombra dei Tre Signori)

per approfondire il tema della morte del bitto storico:





Il bitto storico non c'è più (comunicato)

Il bitto storico con la stagione d'alpeggio in corso non esiste più (fino a quando non sarà pienamente riconosciuto e legalizzato)

Comunicato stampa
Il Consorzio per la salvaguardia del bitto storico ritiene inaccettabili gli attacchi da parte della Coldiretti e annuncia che a breve saranno diramate le informazioni circa le modalità del cambiamento di nome




Dopo l'annuncio da parte di Paolo Ciapparelli - presidente dei "ribelli del bitto" - dell'imminente cambio di nome del bitto storico, cambio sollecitato dall'assessore regionale Fava onde evitare le conseguenze (anche penali) della violazione delle norme europee, si è assistito alla fiera dell'ipocrisia. Chi, per anni, ha combattuto e denigrato il bitto storico (ma lo ha anche sfruttato abilmente per assimilare ad esso il bitto massificato), oggi ha paura che la Valtellina faccia una figuraccia al Salone del Gusto di Torino (a settembre), quando sarà formalizzato che il bitto storico non esiste più. Sarà difficile spiegare perché i prosecutori della più autentica tradizione del bitto non possono poi utilizzare il nome bitto. E perché in ventidue anni, tanto dura la vicenda della “dop bitto”, la politica, invece di risolvere il problema, l'ha aggravato.
Nel coro degli amici dell'ultima ora del bitto storico, che invocano la “pace del bitto” e invitano a “restare uniti” si distingue la Coldiretti. Quest'ultima, attraverso le dichiarazioni del presidente Marsetti paventa conseguenze catastrofiche a seguito del cambio di nome del bitto storico. “Ci sono in ballo – ha dichiarato Marsetti - 60 Imprese Agricole con oltre 120 lavoratori che producono 18.000 forme per un fatturato di oltre 2milioni che corrispondono a oltre 4 milioni di valore al consumo”.  Cosa significa? Che il cambio di nome di 1500 forme di bitto di un tipo farebbe crollare il prezzo delle altre 18 mila? Ovviamente non è possibile ma la Coldiretti, come le altre organizzazioni del sistema agroalimentare (o per meglio dire agroindustriale) valtellinese teme il venir meno dell' “effetto scambio di identità”. Tutto il parlare dell'eccellenza del bitto storico “teneva su” il bitto massificato e “modernizzato”, prodotto con mangimi e fermenti industriali, senza latte di capra. Non c'era quasi nessun giornalista o blogger che in coda ad un pezzo di esaltazione dello “storico”, dei “ribelli del bitto” non allegasse la foto con l'etichetta rossa del consorzio Ctcb.
Fin qui nulla di strano. Chi ha strumentalizzato il bitto storico, usando la tattica di combatterlo alla luce del sole e di cercare di confondersi con esso dietro le quinte, si preoccupa. Quello che è inaccettabile è la diffamazione dei “ribelli del bitto” . Marsetti ha accusato senza mezzi termini i “ribelli” di "strumentalizzare   la difesa delle tradizioni, della tipicità, della storia, del territorio a fini di mero interesse e di parte".
Marsetti sa che gli oltre 100 soci della Società valli del bitto (compresi i produttori agricoli) , per sostenere il metodo storico, hanno realizzato – di tasca loro - una casera che è anche una galleria d'arte, di cultura, di umanità, che è diventata un elemento di interesse turistico, che promuove l'immagine della Valtellina attraverso i media nazionali e internazionali. Una casera per la quale la Società valli del bitto hanno douto investire di tasca – in in periodo in cui il Comune di Gertola non disponeva delle copiose entrate attuali – ben 300 mila euro , utilizzati per le spese di edificiazione di un immobile che è totalmente di proprietà del comune. Questa spericolata generosità (o comunque ingenuità) nel sostenere un comune che si pensava amioo (e che poi ha voltato le spalle per unirsi al coro dei poteri forti nemici del bitto storico) ha determinato l'accensione di linee di credito che, nel corso di un decennio, hanno gravato di interessi passivi il bilancio della Società valli del bitto. I “debiti” sono solo questi . Nelle varie interlocuzioni succedutesi negli scorsi anni la richiesta avanzata dai “ribelli” alle istituzioni era di riconoscere – nelle forme legittime e idonee – un terzo di quell'investimento iniziale. Un'inezia rispetto agli sprechi dei rappresentanti delle istituzioni e delle varie organizzazioni dell'establishment che cifre simili se le bruciano, nell'ambito di “progetti di promozione” solo per spese di rappresentza e cene tra loro.
In ogni caso i “debiti” della “valli dl bitto” (peraltro onorati ) sono derivati dall'aver voluto sostituirsi alle istituzioni, tanto era l'entusiasmo per la causa del sostegno dei produttori storici. In dieci anni la Società valli del bitto, ha agito all'opposto di una società con fini di lucro (formalmente è una spa), operando come una Fondazione riconoscendo ai produttori un “prezzo etico”, gestendo un vero e proprio museo, svolgendo attività culturali autofinanziate (o sostenute dai privati) che incidono pesantemente sui costi del personale , costi  che, qualsiasi altro soggetto non inviso ai poteri forti e alle istituzioni, avrebbe addebitato a qualche “progetto”. Nel frattempo le organizzazioni che gestisono la promozione alimentare in Valtellina hanno speso milioni di euro, spesso solo per dare lavoro agli amici con iniziative di nulla o scarsissima ricaduta.
Marsetti (ma non solo lui) chiede al bitto storico di non cambiare nome e di continuare a “fare da traino”. Sarebbe come chiedere a Varenne di trainare un pesante carro insieme a dei ronzini che – generosamente alimentati di biada – lasciano al campione l'onere di spingere. Al campione, nel frattempo, invece della biada si promette del fieno (ammuffito).
I “ribelli del bitto” sono dei “trogloditi che rifiutano la modernità” (come venivano definiti solo qualche anno fa). Ma sono abbastanza avveduti da capire che, sino a quando la politica non sarà in grado di legalizzare il bitto storico, a loro conviene cambiare – sia pure provvisoriamente – nome. Se ne facciano una ragione Marsetti e tutti gli altri.
In un prossimo comunicato verrà precisato, anche a beneficio dei consumatori, con che modalità e tempi sarà attuato il cambio del nome. In ogni caso nella stagione d'alpeggio 2016 non sarà prodotta alcuna forma di bitto storico. Il bitto storico (almeno per ora) è morto.

Gerola alta, 20 luglio 2016

LEGGI ANCHE per approfondire : http://ribellidelbitto.blogspot.it/2016/07/bitto-fa-paura-alla-casta-lo-storicoche.html

domenica 17 luglio 2016

Bandiera dei ribellidelbitto


E mi sonto un homo selvadego a chi me ofende ghe fo pagura
(cartiglio originale dell'affresco di Sacco)

Tra i vari simboli intrecciati alla vicenda "ex bitto storico", uno dei più belli è quello dell'Homo selvadego, così come raffigurato nel Museo di sé stesso a Sacco (un paese della Valgerola), museo che esiste grazie all'interessamento, a suo tempo, degli amici Robi Ronza e Giampiero Mazzoni.



Il "Selvadego", con vari nomi, è parte della mitologia alpina. E' anche la forma "depotenziata" di antiche divinità (in primis il Dagda celtico) "armate" di clave magiche e dotate di poteri sapienziali. Il Selvadego è legato all'ex bitto storico non solo perché personaggio della Valgerola ma anche perché simboleggia la conoscenza segreta delle tecniche casearie. Fu lui, nel mito alpino, a trasmettere agli uomini, l'arte di coagulare il latte. Non rivelò tutti i suoi segreti. Dopo aver insegnato a produrre il burro e il formaggio gli uomini lo offesero e non si fece più vedere. Il terzo segreto riguardava l'uso del siero o della scotta per ricavare non solo ricotta ma anche cera, olio e, in alcune versioni, anche materiali più preziosi. Oggi è stato eletto a nume tutelare da parte dei ribelli del bitto che si augurano che il nodoso randello del selvatego incuta timore ai nemici del formaggio storico. Non è detto che dopo migliaia di anni il Selvadego possa tornare... e randellare.

sabato 16 luglio 2016

Bitto. Fa paura alla casta lo "storico"che cambia nome

E' bittexit. La rabbia (e la paura) dell'establishment per l'ex Bitto storico che cambia nome. Fiera dell'ipocrisia. Ma qualcuno getta la maschera

Il Bitto storico non esiste più. L'hanno strumentalizzato, sfruttato, minacciato, denigrato. Ora la piccola leggendaria produzione degli alpeggi orobici si dota di un proprio nome commerciale, troncando con la dop che le ha scippato il nome, con i ricatti, con la confusione con un Bitto Dop che è "istituzionale” e "legale" (ma che con quello della storia non c'entra nulla).Tanto vale quindi utilizzare un nome conquistato sul campo in vent'anni di lotta. Un nome che, pur nuovo di pacca, è la storia. Lo “storico” non potrà più essere scambiato con il “nuovo bitto” dei mangimi e dei fermenti. E l' immagine di quest'ultimo non ne guadagnerà. 

Una conseguenza voluta da chi per anni ha fatto il furbo, evitando una vera soluzione per il Bitto storico e alimentando una situazione ambigua (ma dalla quale hanno tratto in diversi profitto). Proveranno a incolpare di "lesa immagine del Bitto e della Valtellina" dei piccoli produttori onesti, che hanno dovuto rinunciare al nome, un nome che utilizzavano da sempre e che gli è stato scippato da una dop basata su falsi storici.  Che sono costretti - per evitare reati penali - a chiamare il proprio prodotto con un  nome commerciale, esercitando peraltro un sacrosanto e insindacabile diritto. 

Ovviamente accuse così strampalate si ritorceranno contro chi le avanzerà. Ecco perché il Bitto storico che cambia nome sta spaventando non pochi della casta di potere in Valtellina. LA FIGURACCIA PER LA VALTELLINA AL SALONE DEL GUSTO DI TORINO SARA' DI QUELLE COSMICHE E LE RESPONSABILITA' PERSONALI EMERGERANNO. I RIBELLI DEL BITTO SONO PRONTI A FARE NOMI E COGNOMI. COMODO NASCONDERSI DIETRO IL CESPUGLIO ISTITUZIONALE E NON METTERCI LA FACCIA (se non quando fa comodo).



Era tanto comodo parlare di Bitto storico... e far vedere l'etichetta rossa

Faceva troppo comodo all'establishment agroindustriale e burocratico valtellinese un Bitto storico dal precario status giuridico, anzi, del tutto fuorilegge. Faceva comodo poter confondere le idee ai consumatori (quante volte articoli, anche di sinceri amici dello "storico", avevano "allegata" la foto con la fatidica etichetta rossa). Una promozione gratuita, immeritata, parassitaria.
Troppi  blogger, giornalisti - più o meno professionisti  - parlavano di "Bitto storico" e lo confondevano con il "Bitto legale", con il "Bitto istituzionale", con il Bitto dei mangimi e dei fermenti industriali, e senza latte di capra.
Faceva comodo mettere davanti la vera eccellenza del Bitto storico, frutto di tanti sacrifici e della strenua opposizione all'omologazione voluta dalle istituzioni locali, e poi proclamare che "c'è un unico sistema bitto", "non ci sono poi tante differenze".  Incassando le royalties di una fama internazionale costruita dal Bitto storico con l'aiuto di Slow food.
Questa frase fatidica "non c'è poi tanta differenza",  decisamente qualunquista,  l'ha pronunciata uno dei non pochi nemici del Bitto storico: Emanuele Bertolini, presidente della Camera di commercio, l'ente autore  del "falso storico" che consentì all'Unione Europea di approvare una dop tarocca. Tanto tarocca che, sino all'anno prima, la Camera di commercio assegnava il suo marchio "Bitto Valtellina" solo al formaggio prodotto nella Comunità montana di Morbegno. Poi, per miracolo, o per cecità improvvisa dei tanti che dovevano controllare, lo stesso formaggio che la Camera attestava prodursi "solo nella bassa Valtellina" venne dichiarato, di colpo, tradizionale e prodotto da almeno 25 anni in tutta la provincia di Sondrio. E allora non c'è da meravigliarsi se il Bertolini la frase fatidica "non c'è poi tanta differenza tra i due bitti" l'abbia proferita non al culmine di un contraddittorio con i ribelli, ma - a testimonianza di una vicenda che è anche surreale -  il giorno della storica "pace del bitto" (l'ennesima presa per i fondelli), celebrata il 10 novembre 2014 a Gerola alta.



"Figuriamoci se avete il coraggio di cambiare nome"

Alla Camera di commercio, alla Coldiretti, al Ctcb, all'associazione provinciale allevatori, alla Latteria sociale Valtellina, alle agenzie del potere agricolo un Bitto storico perennemente sotto scacco (dopo le sanzioni per "lesa dop" comminate nel 2009) faceva estremamente comodo. A loro e ai burocrati regionali con loro in stretta contiguità. Quando, nell'ottobre 2015, l'assessore Fava tentò una mediazione in extremis (convocando in Regione Lombardia le parti), la vestale delle dop lombarde, la Dott.ssa Parma - più realista del re nel tutelare il Consorzio ufficiale dai cattivoni  "ribelli del Bitto" -  fu l'unica a reagire all'ipotesi di cambiamento del nome del Bitto storico messa sul tappeto da Ciapparelli. Quando sentì dire da Paolo Ciapparelli che i produttori dello "storico" erano pronti a cambiare nome, trasalì e, con aria di sfida, apostrofò Ciapparelli con un: "figuriamoci se avrete il coraggio di farlo".  



 Forse gli altri presenti, che sul momento non dissero nulla, pensarono che il loro gioco era finito. Fare finta da una parte di esecrare l'inaffidabile, incontentabile, indisciplinato, anarchico Ciapparelli e, dall'altra,  benedire l'esistenza del Bitto storico che, confondendo le carte, serviva egregiamente a sostenere l'immagine di un prodotto massificato, con la qualità in declino era troppo bello. Ma il gioco è arrivato alla fine. Di qui il nervosismo che serpeggia negli uffici della gente che conta in Valtellina. Quelli che si credono i padroni dell'agroalimentare.
Mai si è vista una mobilitazione di politici, burocrati,  amministratori sul tema Bitto come in queste ultime settimane quando, prima come indiscrezione filtrata, poi con un annuncio formale, Ciapparelli ha comunicato che il cambio di nome era ormai deciso e che sarebbe stato ufficializzato a settembre 2016 al Salone del gusto di Torino.  
Chi per anni ha combattuto il Bitto storico se ne è proclamato paladino. "No, giammai, non deve cambiare nome". Sepolcri imbiancati!
In tanti si sono messi, così, a chiedere "mediazioni", del tutto improbabili dopo che la politica ha avuto vent'anni per affrontare il problema evitando accuratamente di andare al sodo: ammettere che il disciplinare della dop era da rifare. 
Questo della "difesa del Bitto storico" da parte dei suoi nemici è uno spettacolo imbarazzante che ha coinvolto anche dei parlamentari di un partito con forte peso in provincia e in regione.
L'unica posizione onesta, tra tanta ipocrisia, è venuta dall'assessore regionale Fava (nonostante sia dello stesso partito che a Sondrio si esercita nel cerchiobottismo di marca democristiana) . Fava ha ribadito che il "bitto storico è fuorilegge e passibile di denuncia per frode in commercio". Aggiungendo che Ciapparelli non solo fa bene a cambiare nome (anche dal punto di vista commerciale, oltre che legale)  ma che lo fa anche su suo caldo suggerimento e con il suo appoggio (non da privato cittadino ma da assessore regionale).


Anche senza "bitto" chi non riconosce lo storico formaggio ribelle degli alpeggi orobici?. Al bitto dop (legale e istituzionale) sono rimasti la forma e il nome. Allo storico la sostanza, la continuità. l'ammirazione delle persone oneste e che sanno riconoscere un prodotto autentico, la solidarietà della gente comune e degli operatori economici  non legati ai favori delle amministrazioni

La Coldiretti getta la maschera e accusa il Bitto storico di "speculare sulle tradizioni, sulla tipicità, sulla storia, sul territorio"

Tra le tante reazioni vale la pena segnalare quella del presidente provinciale della Coldiretti, Marsetti, perché ha il merito di gettare - almeno in parte - la maschera di ipocrisia,  lanciando senza mezzi termini  l'accusa ai "ribelli del bitto" di "strumentalizzare  la difesa delle tradizioni, della tipicità, della storia, del territorio a fini di mero interesse e di parte".
Una vera diffamazione per gli oltre 100 soci della Società valli del bitto (compresi i produttori agricoli) che, per sostenere il metodo storico, gestendo una casera che è una galleria d'arte, di cultura, di umanità, hanno investito di tasca loro (perdendo parte del capitale a causa di investimenti che avrebbero dovuto essere realizzati dal comune e che sono stati invece accollati alla Società del bitto storico, sulla carta una spa, di fatto una onlus). 
Ma non basta. Il bitto è uno solo, insiste la Coldiretti: "sia che producano BITTO DOP, in riferimento al disciplinare in capo al CTCB,  sia che producano formaggio con il metodo storico, svolgono il medesimo lavoro, in medesimi contesti territoriali quali gli alpeggi".
Ma se svolgessero il medesimo lavoro (che quindi dovrebbe sortire lo stesso prodotto)  vent'anni di conflittualità a cosa sono dovute? Ad allucinazioni? A casi psichiatrici?
Ancora una volta si vuole la botte piena e la moglie ubriaca. Non si vuole ammettere che i produttori storici e gli altri lavorano in modo diverso. Sarà uguale mungere a mano, o a macchina, usare fermenti e mangimi o non usarli? No cari signori della Coldiretti, il "contesto" non è lo stesso. Chi va a elicotterate di mangime compromette i pascoli e la qualità del formaggio. Il "contesto" è completamente diverso. Ma a voi è finora tornato comodo mettere davanti il "povero contadino" per tutelare il grosso agricoltore i cui interessi si confondono molto spesso con quelli dell'industria e della speculazione. E' un giochino che ha reso bene all'organizzazione (anche se i "contadini" , intanto, in Italia, grazie alla "tutela" della Coldiretti, sparivano).



 Si vuole essere una sola famiglia quando fa comodo (quel che è tuo è mio, quel che mio è mio, ma dobbiamo stare uniti e volerci bene). Si vuole sfruttare il "traino" (Il Bitto storico rappresenta valore aggiunto e può essere traino). Comodo signori, quando in cambio si sono offerte solo prese per i fondelli . 
Il trottatore, non un brocco, ma un Varenne, deve essere aggiogato al carro dei ronzini, ma riceve meno biada, anzi solo la promessa di un po' di fieno marcio (il Ctcb riceve per la promozione  cifre importanti, tanto che con un solo "prodotto" promozionale del Consorzio ufficiale il Centro del bitto metterebbe a posto il bilancio) . Basta. I fessi del Bitto storico dovrebbero ancora assoggettarsi ai sacrifici che comporta il metodo storico per "fare da traino". A chi?  A quelli che producono tanto? O alle macchine mangia soldi pubblici . Più la seconda. Ovviamente Marsetti non lo ammetterà neppure sotto tortura.
Con la consueta demagogia coldirettistica non rinuncia alla  sceneggiata strappalacrime: In ballo, dice, ci sono 60 Imprese Agricole con oltre 120 lavoratori che producono 18.000 forme per un fatturato di oltre 2milioni che corrispondono a oltre 4 milioni di valore al consumo. 
In ballo cosa? Chi mette a repentaglio chi? Vogliono far credere ai loro associati produttori di bitto dop che sarà il cambio di nome di 1500 forme di formaggio - indispensabile per non incorrere in reati penali - a rovinarli? Di cosa parliamo? 
Se Marsetti vuole difendere l'immagine del Bitto dop si dia da fare affinché i tanti soldoni che la Regione eroga per la promozione a favore dei vari enti vadano a buon fine invece che oliare le clientele.

I ribelli sono montanari, non hanno le malizie degli azzeccagarbugli e dei faccendieri ma non sono imbecilli

La Coldiretti non ha realizzato che i "ribelli del bitto" non hanno l'anello al naso. Hanno capito benissimo quali interessi tutela la Coldiretti (e tutto il "sistema"), non certo i loro. I loro, lo sanno da tempo, devono tutelarseli da soli.  Sarebbero masochisti se non cautelassero la propria attività legandola ad un marchio commerciale che nessuna istituzione, partito, sindacato, potentato, lobby, consorzio potranno più  ricattare o comunque condizionare. Sarebbero masochisti se non capitalizzassero in un marchio di loro proprietà il lavoro fatto con tanti sacrifici economici (e non) per salvare non tanto il "Bitto" (ormai un nome svuotato del suo fascino e del legame con la storia prestigiosa) ma quel patrimonio storico sedimentato che fa dello storico formaggio degli alpeggio delle Orobie occidentali un bene storico-culturale che nessun burocrate di Milano, di Roma o di Bruxelles, nessuna lobby possono più pensare di tenere in ostaggio con le loro "regole europee".

Se ne facciano una ragione Marsetti e i suoi simili




giovedì 7 luglio 2016

Bitto storico = reato penale (perché BITTEXIT)

Facciamo chiarezza sul bitto storico che non può più esistere (a meno che - smentendo vent'anni di traccheggiamento - la politica vada a Bruxelles a dire: "scusateci siamo italiani pasticcioni e imbroglioncelli, abbiamo fatto una dop del piffero e adesso, dopo vent'anni, vogliamo rimediare)".
Molte le ciance sul Bitto storico. Molti si ergono a suoi paladini dell'ultima ora (dopo che per anni non hanno fatto nulla o peggio) e si dicono scandalizzati del fatto che il Consorzio salvaguardia del bitto storico abbia depositato un altro nome. Ormai non c'è più da meravigliarsi di nulla ma se pubblici amministratori, sindaci tenuti a conoscere e a far rispettare le leggi non si rendono conto che "Bitto storico" è reato e discettano di "accordi" e "tavoli" significa che si è toccato il fondo. Anche perché non sono loro a rischiare le conseguenze penali. Forse non si rendono conto che gli appelli a "non abbandonare il Bitto storico" equivalgono alla istigazione a commettere un reato. Sono credibili solo se si traducono in azioni con il fine di ottenere precise garanzie da parte delle istituzioni . Garanzie per una tutela giuridica ed economica dei produttori del Bitto storico, comprensiva di soluzioni "tecniche" transitorie sino al riconoscimento europeo di un nuovo disciplinare del Bitto Dop (per il quale ci vorrà una forte iniziativa politica se si vorrà spuntarla). Se le istituzioni (in questo caso regione Lombardia e Ministero delle politiche agricole) non possono o non intendono fornire queste garanzie è meglio prendere atto che il cinema è finito.

La frode in commercio

Tra tanti politici e amministratori pubblici allo sbaraglio (e furbastri) solo l'assessore regionale Fava ha avuto il coraggio di uscire dall'ipocrisia e di dire le cose come stanno: "Si rischia la frode in commercio". Una boutade? Assolutamente no. Perché nel caso di violazione delle norme di protezione delle denominazioni protette (Dop) il reato (penale) è conclamato e aggravato.

art. 515. (Frode nell’esercizio del commercio)

Chiunque, nell’esercizio di una attività commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all’acquirente una cosa mobile per un’altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita, è punito, qualora il fatto non costituisca un più grave delitto, con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a euro 2.065

Questo l'articolo del Codice penale. Ma quando si verifica la "frode"? Quando il prodotto è diverso per caratteristiche  essenziali ovvero non risponde ai requisiti richiesti per fregiarsi di una certa denominazione come palesemente ricorre qualora non si abbiano i requisiti per poterlo fregiare di denominazione protetta (Dop).


Per l'aspetto amministrativo vale, invece, il Decreto Legislativo 19 novembre 2004, n. 297 ("Disposizioni sanzionatorie in applicazione del regolamento (CEE) n. 2081/92, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agricoli e alimentari"). Notare che se le violazioni vengono reiterate le sanzioni sono triplicate. 

Art. 2. Designazione e presentazione della denominazione del segno distintivo o del marchio
2. Salva l'applicazione delle norme penali vigenti, chiunque nella designazione e presentazione del prodotto usurpa, imita, o evoca una denominazione protetta, o il segno distintivo o il marchio, anche se l'origine vera del prodotto e' indicata o se la denominazione protetta e' una traduzione non consentita o e' accompagnata da espressioni quali genere, tipo, metodo, alla maniera, imitazione, o simili e' sottoposto alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro duemila ad euro tredicimila.

Come si è arrivati a tanto?

Il "bitto storico - Presidio Slow Food" , rappresenta di per sé una forma di autodenuncia clamorosa. I produttori "storici" sono usciti dalla dop per disperata protesta sin dal 2006 a seguito dello stravolgimento del metodo di produzione del Bitto dop. La UE aveva avallato quell'anno l'uso dei fermenti industriali e dei mangimi. Contemporaneamente il Ministero aveva diffidato dall'uso del marchietto aggiuntivo "Valli del Bitto", flebile segno di differenziazione tra la produzione realizzata nell'area di origine e con i metodi tradizionali da quella "modernizzata", estesa a tutta la Provincia di Sondrio e "facilitata" dall'uso di fermenti e mangimi. In seguito alle sanzioni della "Repressione frodi" del 2009 la struttura di stagionatura (Il Centro del bitto) e due produttori rientrarono nella dop (ma non nel Consorzio). Una situazione di transitoria e parziale legalizzazione che è durata ben poco perché dopo due anni nessun produttore era più sottoposto ai controlli necessari per il marchio dop.
Non siamo un paese normale

I produttori del Bitto storico (e Slow Food che li ha sempre appoggiati con coerenza e coraggio) pensavano di "forzare la mano", ovvero di spingere le istituzioni a ricercare una soluzione politica e giuridica alla paradossale situazione di un prodotto che è costretto ad autodenunciarsi trovandosi (con le nuove regole delle dop europee) "fuorilegge". Ma siamo in Italia, un paese che non è normale e nessuno si è mosso. Muoversi significava disturbare le lobby. Così oggi si viene a dire: "Abbiamo chiuso gli occhi e continueremo a farlo". Forse chi dice così non si rende conto di autodenunciarsi esso stesso.
Solo l'annuncio che in questa situazione non si poteva durare e che era ormai venuto il momento di riconoscere che LA BATTAGLIA PER IL BITTO STORICO ERA PERSA (e che bisognava obtorto collo cambiare nome al formaggio storico delle alpi Orobiche) ha smosso le acque e fatto piangere ai coccodrilli lacrime copiose.
Il Bitto storico da diversi anni è proseguito nella condizione surreale di una "illegalità tollerata". Ma può una qualsiasi attività economica e un'azienda con dei soci azionisti e degli amministratori basare la propria attività su un'attività illegale? Facile parlare quando non si rischia né economicamente né penalmente. Il patrimonio storico e culturale rappresentato dal glorioso formaggio sarà al sicuro fuori della Dop.