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sabato 19 dicembre 2015

Cibo e identità locale: la rete si concretizza

(03.12.15) Dopo l'uscita del libro "Cibo e identità locale" , ricerca partecipata con soggetto sei cibi di comunità, in occasione degli incontri di presentazione del libro, ma anche del tutto spontaneamente, si sono infittite le relazione tra la rete. A Gandino l'11 gennaio si farà il punto di questi sviluppi aprendo una fase nuova di questa storia di ricerca-azione

Cibo e identità locale:

la rete si concretizza


di Michele Corti


L'occasione della prossima presentazione del libro "Cibo e identità locale"    a Brescia (una delle località protagoniste con il "vigneto Capretti e il vino della Pusterla ) mi spinge a fare il punto con i lettori di Ruralpini di questo progetto così legato ai temi, alle realtà locali, ai personaggi che sono anche al centro dell'interesse del sito.  Quest'autunno si sono svolte presentazioni a Milano (la seconda), a Bergamo, a Teglio (altra località protagonista con il "mitico" grano saraceno autoctono), a Mortara (su invito della locale biblioteca interessata insieme al comune al tema).


Magnifici sei (prodotti agristorici, agrisociali, agriculturali)

A Gandino (mais spinato), Mezzago (asparago rosa), Corna Imagna  (stracchino all'antica) la presentazione era già stata organizzata a primavera.  Ora manca solo Gerola alta (bitto storico) dove si chiuderà il tour nel periodo delle vacanze natalizie.
Al di là delle numerose presentazioni che mi hanno visto impegnato insieme a Sergio de la Pierre e Stella Agostini (gli altri autori del libro) è interessante notare è che si sono sviluppate nel frattempo interessanti iniziative che hanno coinvolto le località protagoniste dei sei casi trattati nel libro e che vanno nella direzione della crazione di una rete basata sulla condivisione non tanto di regole quanto di una filosofia di approccio al cibo locale.
Tra le iniziative più interessanti da segnalare la partecipazione del mais spinato di Gandino, del bitto storico di Gerola e del grano saraceno di Teglio al "Comice agricole" evento svoltosi il 4-6 settembre a Saint Pierre de Chaundieu, comune della Provenza gemellato con Mezzago. A settembre l'asparago rosa non c'è e il comune di Mezzago ha pensato allora di estendere l'invito agli altri membri del circuito "Cibo e identità locale".
Insieme in Provenza

La partecipazione alla Festa agricola in Provenza rappresenta un po' l'esempio di come la rete "Cibo e identità locale" sia in grado di creare condivisione di reti. Piuttosto che un circuito chiuso in sé stesso è un circuito che stimola la crescita di reti e il raccordo tra esse. Gandino con il suo ormai meritatamente famoso "spinato" è un centro propulsore di reti di mais antichi a raggi concentrici (da quelli lombardi a quelli di mezzo mondo). Mezzago è in relazione anche in questo caso con gli altri "luoghi dell asparago" (Cantello, Cilavegna) in Lombardia ma anche in Europa.  Il bitto storico è in relazione con diversi presidi Slow food e formaggi legati ad esperienze di "resistenza casearia" e insieme allo stracchino all'antica di Corna imagna partecipa alla rete dei "Formaggi principi delle Orobie".


Reti di reti

Il grano saraceno di Teglio rappresenta l'unica varietà autoctona italiana della fagopiracea ma attraverso Pro Specie Rara (associazione svizzera) è in relazione con esperienze alpine di recupero di antiche piante coltivate e, attraverso Gandino, con le dinamiche esperienze di recupero di antiche varietà di mais e altri cereali che stanno sviluppandosi in Lombardia e anche in altre regioni del Nord Italia.
Come avevamo indicato nelle conclusioni del libro sarebbe del tutto fuoristrada chi volesse identificare nei "nostri" casi degli esempi di approccio nostalgico alla memoria e al patrimonio locali o, ancor peggio, casi di "localismo difensivo", arroccati nella difesa di tradizioni statiche e di una malintesa mistica passatista.
Capaci di relazionarsi con il proprio passato, di valorizzare la propria identità in forma dinamica e aperta queste comunità , queste esperienze di produzione agroalimentare, pur se piccole, manifestano un grande grado di apertura e di relazioni internazionali .


Innescati dalla ricerca e dal libro partono una serie di rapporti

Le presentazioni del libro - tutto fuorché una "restituzione" formale di una ricerca accademica convenzionale - hanno rappresentato occasioni per "incrociare" le diverse esperienze, raccontate direttamente dai protagonisti, e per infittire i rapporti ma questi ultimi si sono sviluppati anche per altre strade. Il 22 novembre un pullman carico di mezzaghesi,  è arrivato per iniziativa della pro loco a Gerola alta per visitare il Centro del bitto storico. Al di là delle differenze ovvie tra una realtà di montagna e una di pianura vi è l'interesse vivo in questi contatti a scambiarsi idee e formule sulla "neoagricolatura". Fatta in montagna contrastando l'abbandono con le razze autoctone e la riscoperta di tecniche tradizionali o nella pianura minacciata dall'ulteriore espansione della conurbazione milanese l'agricoltura ha in entrambi i casi bisogno di formule ben diverse da quelle dell'agricoltura industriale, formule che - senza dimenticare la sostenibilità economica - sappiano far leva su risorse e valori sociali. Così la coop di Mezzago che dopo tutta una fase storica decide di ritornare alla vocazione agricola e il consorzio degli alpeggiatori del bitto storico scoprono di avere problemi e forse anche risposte in comune. E si è parlato anche di iniziative comuni (tanto interessanti da non dover essere "bruciate" con anticipazioni).


Casi unici (o no?)

Tutti questi contatti "bilaterali" e "multilaterali" per fare il verso al diplomatichese vanno visti come una bella opportunità. Ognuno dei sei "casi" ha una sua forza, una storia che può insegnare qualcosa, una capacità di trascinamento.  Si tratta di casi in un certo senso "speciali" (c'è una sola realtà che grazie ad un attaccamento particolare alla cultura del grano saraceno ha saputo preservare una varietà autoctona, non ci sono vigneti urbani grandi come quello Capretti, non c'è un formaggio come il bitto storico che riesce a inventarsi un movimento di opinione a suo sostegno,  non ci sono una realtà come Mezzago con un circuito così virtuoso tra amministrazione, attività agricole e sociali, non c'è un'altra realtà come Corma Imagna dove un centro culturale promuove la rinascita agricola e opera direttamente in ambito turistico. E tanto meno un'altra come Gandino che da una vecchia spiga di mais ha saputo costruire un progetto da molto ammirato (e invidiato) di valorizzazione agroalimentare e turistica.


Nuovi casi "autocandidati" ad entrare nella rete

Gli autori del libro ma anche i protagonisti delle esperienze di Corna, Mezzago, Gandino, Teglio, Brescia sono consapevoli che queste esperienze, prese ciascuna per la propria specificità, ricchezza e suggestione ma anche nel loro insieme (per quel che di comune che esse posseggono) possono rappresentare uno stimolo, un modello per tante altre realtà, note e meno note, tutte  potenzialmente capaci di partecipare ad una rete con una filosofia comune. All'inizio della ricerca (che risale al 2010) le sei località che poi vennero prese in esame appartenevano ad una rosa di casi più ampia (in totale 18 località della Lombardia). Noi scegliemmo quelle più emblematiche, più promettenti, più ricche alla luce di una pluralità di valenze agricole, sociali, culturali. Al di là delle località "di seconda linea" che, però, una volta esaminate potrebbero rivelare interessanti sorprese intanto si sono affacciati alla ribalta nuovi casi. Quello di Nova milanese è paradigmatico. Nel contesto di una apparentemente disperante realtà di un territorio dove solo alcuni "pori" non sono stati impermeabilizzati e cementificati è nata una nuova esperienza di cibo di comunità . Troppo recente per essere ricompresa nel libro. Nel 2015 sono stati seminati a mais della varietà tradizionale Marano 3 ha di terreno recuperato da una ex cava e, nonostante la siccità, una piccola produzione di farina è stata ottenuta. Il tradizionale pan gialt (di farina di mais e segale) è stato prodotto per la prima volta dopo chissà quanto tempo con farina km 0 che reca il marchio del comune e dell'ecomuseo (realtà recente ma sorta dall'esperienza di lavoro culturale trentennale dell'associazione "Il cortile" presieduta da Mariuccia Elli).

A Nova quest'autunno si è seminata anche la segale, ci si è messi in contatto con Gandino (e attraverso Gandino con il CRA-MAC) di Bergamo inserendosi nel circuito dei "paesi dei mais antichi". Operazioni che hanno potuto realizzarsi grazie all'embrionale rete del "Cibo e identità locale", anche grazie all'incontro del 17 maggio di presentazione del libro al quale era partecipe, come in altre presentazioni, Antonio Rottigni, uno dei papà del Mais spinato con una grande disponibilità a porsi come una risorsa per l'attivazione di relazioni comuni.



Microrealtà capaci di dire qualcosa sugli enormi problemi dell'oggi

Qualcuno continuerà a sorridere di fronte alle cifre di queste esperienze (da una parte investimenti di 3 ha, dall'altra di 10 o 15). Anche il bitto storico che pur interessa centinaia di ha di pascoli in realtà è legato a quelle 1000 forme "Gran riserva" destinate all'invecchiamento e custodite come reliquie nel "Santuario del bitto". Sorrida pure. Poi, però, deve spiegare perché grandi aziende con centinaia di capi in lattazione con la "genetico" top, la tecnologia up to date, che consegnano decine di tonnellate di latte al giorno dicono di non farcela più mentre i nostri casi hanno bilanci in attivo e i sia pure piccoli fatturati in espansione. Con la differenza che se guardiamo i bilanci ambientali, sociali, culturali, etici i nostri casi presentano larghi attivi, le imprese super efficienti iperindustrializzate bilanci etici, ambientali, sociali, culturali in rosso.


La grande differenza tra la "filosofia" della rete del "Cibo e identità locale" e l'agricoltura tradizionale è che pur non dimenticando la sostenibilità economica tutti i nostri casi hanno messo al primo posto obiettivi non economici ma che alla lunga si traducono in implementazione di capitale sociale, umano, territoriale (e quindi anche in valori economici nel contesto di un'economia non speculativa ma che sa lasciare spazio alla società e non intende assimilarla  senza residui al mercato).
La sfida d'ora in poi è quella di dimostrare che se, da una parte, è vero che i "nostri" casi hanno una marcia in più rispetto a molte altre comunità "sedute", senza orgoglio, senza idee, è pur vero dall'altra che ci sono giacimenti insondati di risorse agriculturali e agrisociali da far emergere e che non c'è realtà locale che non riesca, se ne ha la volontà,  a trovare in sé stessa risorse preziose.
Un cibo, una coltivazione, una preparazione alimentare spesso sono la scintilla di iniziative di aggregazione, di nuova economia, di una sfida eterodossa al grigiore dell'uniformità, delle monocolture, della dittatura dei mercati globali e delle tecnologie che ne supportano la penetrazione.

martedì 8 dicembre 2015

Lo "storico" nella rete dei cibi di comunità

Per coloro che fossero interessati a saperne di più sulla rete sorta intorno al progetto "Cibo e identità locale"  riportiamo i testi di una brochure prodotta per presentare il volume che illustra i sei casi e alcune indicazioni sulle caratteristiche che le "new entry" dovrebbero presentare 

Rete dei cibi di comunità:

 una rete aperta





Il  materiale qui presentato costituisce un allegato al volume "Cibo e identità locale. Sistemi agroalimentari e rigenerazione di comunità- Sei esperienze lombarde a confronto. Il volume (20€ di contributo) e la brochure (gratuita) vanno richieste al Centro Studi Valle Imagna


Centro Studi Valle Imagna, Via Vittorio Veneto, 138 24038 Sant'Omobono terme . tel 3281829993

Magnifici sei (prodotti agristorici, agrisociali, agriculturali)







E per entrare?

Nella prima riunione della rete che si terrà a Gandino l'11 gennaio si parlerà anche di allargamento della rete. Il pan gialt da Nöa (pan giallo di Nova milanese) ha già manifestato interesse ad aderire. La porta è aperta anche ad altre realtà, inizialmente in ambito lombardo, poi si vedrà.
Non ci saranno regole predeterminate e procedure burocratiche né tanto meno "tasse di ingresso".
Quello che hanno in comune le sei realtà da cui parte la rete è l'approccio al cibo locale, un approccio che punta a ricostituire e rafforzare legame sociale, coscienza di luogo, cittadinanza attiva, che riporta il fatto agricolo, alimentare in una dimensione di comunità. Non con l'illusione di ricreare le condizioni di un tempo ma per valorizzare, nella realtà attuale, la prossimità, l'appartenenza a un luogo, la continuità di storia e memoria in opposizione alla "liquefazione" sociale.
Al centro non c'è il prodotto ma le relazioni vive tra attori locali, tra prodotto e storia, tra prodotto e identità locale, tra prodotto e paesaggio, forme del patrimonio materiale e immateriale, risorse naturali. Un prodotto può anche essere frutto di un recupero a volte parziale di elementi di una tradizione, di un patrimonio. Quasi sempre si parte da risorse come varietà e razze animali locali ma, dove si sono perse, possono essere ricreate le condizioni per riassegnare un carattere locale ai processi di coltivazione, allevamento, trasformazione, consumo. Valorizzare commercialmente varietà autoctone al di fuori di processi partecipativi, di mobilitazione di risorse della memoria e della socialità ha poco a che fare con i processi di "cibo locale" come li intendiamo noi.

Pensiamo che siano tantissime le comunità che, nella loro storia recente o meno, si siano identificate in un prodotto agroalimentare, in una preparazione, in una modalità particolare di consumo. Ecco da dove partire.
Serve, però, una scintilla. L'elemento chiave quindi è quello della soggettività, della voglia di una comunità di comunicare all'esterno una propria identità, di ricreare connessioni spezzate (anche sul piano economico) facendo leva su un emblema alimentare.Attivando poi azioni concrete nel campo della neoagricoltura ad opera di associazioni, cooperative, neoagricoltori ma anche imprenditori agricoli interessati a uscire dai modelli produttivistici. L'importante è non rimanere chiusi negli steccati, saper operare anche scambiandosi i ruoli superando schemi che l'accelerazione e la fluidità della realtà attuale hanno superato. operare con una visione di luogo e non di "filiera".In ogni caso un progetto di cibo di comunità non può nascere che dal coinvolgimento di più soggetti (amministrazione comunale, pro loco, associaizioni culturali e di promozione territoriale, operatori turistici, agricoltori).

La costituenda rete dei cibi di comunità oltre che operare per rafforzare, con il supporto reciproco, le realtà esistenti può aiutare con l'esperienza dei propri membri altre comunità a superare lo scetticismo, le divisioni interne. Questa azione di animazione è senza dubbio quella più preziosa che oggi la rete può svolgere.
Anche se non va trascurato che in termini di visibibilità e di creazione di un circuito per i prodotti una rete di soggetti che operano su base paritetiche e di solidarietà reciproca oggi può rappresentare una risorsa importante anche quale volano economico.

Chi fosse interessato a sapere di più sulla rete può contattare, se ne ha la possibilità, gli esponenti delle singole realtà (aziende, cooperative, associazioni ecc.) o il Centro studi valle Imagna che è il punto di riferimento editoriale per la rete


martedì 8 settembre 2015

Bitto storico (caseus vallis biti). Nuovi documenti del '500

(08.09.15)  Si rafforza il mito - fondato su solidissima base storica - del formaggio delle valli del Bitto ovvero di quello che sarebbe bene chiamare ancora con il suo nome storico caseus Vallis Biti.  Sulla base di nuovi bellissimi documenti

di Michele Corti

Cirillo Ruffoni ci ha segnalato nuovi documenti storici che consacrano
già nel Cinquecento il formaggio delle Valli del Bitto quale prodotto con  caratteristiche e prerogative sue proprie, uniche, inconfondibili, che lo rendevano riconoscibile rispetto ai formaggi prodotti in altre zone, tanto da costituire per loro anche un termine di paragone. Scusate se è poco.


Mantenere il formaggio delle valli del Bitto quello che è: un monumento vivente di storia è cultura, deve diventare un impegno ancora più stingente per chi crede che in un'epoca di crisi, come quella che stiamo vivendo, preservare patrimoni di cultura, di saperi  (e di valori) non rappresenti un lusso ma una necessità primaria.
Non ci aspettiamo che lo capiscano le istituzioni che assecondando un'economia globale che vuole fagogitare la società, annullare la storia, lo spazio, le differenze. Difendendo la storia ci assicuriamo un futuro e la piccola-grande vicenda del formaggio delle valli del Bitto diventa un episodio esemplare di una resistenza che è quella dell'uomo, della società contro la mega macchina.
Quell'aggettivo "storico" è stato attribuito con felice intuizione a formaggio delle Valli del Bitto  per gridare la sua differenza, la sua opposizione a quegli "adattamenti" alle "moderne tecnologie" che ne avrebbero decretato la fine.  Ed è stato capito.
Franca Prandi  in una recente pubblicazione cita un documento di recente acquisizione (1). Dal documento notarilesi deduce che  Il 5 luglio 1550 Gio. Pietro de Cataneis di Valleve vendeva a Castellino Beccaria le alpi di val Cervia e val Madre. Il Beccaria era  subito investito a livello per un fitto annuo di libbre 100 di “formaggio grasso, salato e stagionato”, per il primo anno e successivamente:

in bono caxeo bene sucto et salato et bene ordinato qui sit […] pinguedinis et bontatis melioris caxei pingui, sucti, salati Vallis Biti [in formaggio buono, ben stagionato, salato e ben curato, che sia per qualità e per bontà migliore del formaggio grasso, stagionato e salato della valle del Bitto]

Dal che la Prandi conclude che:

Il formaggio grasso prodotto nella valle del Bitto  era già affermato, quindi e soprattutto riconosciuto come prodotto di alta qualità, molto apprezzato dai buongustai e non solo, che già allora veniva smerciato a prezzi piuttosto alti.

Il formaggio delle valli del Bitto era noto non solo in Valtellina e nella limitrofa Val Brembana ma la sua fama doveva essere arrivata lontano. In Valtellina il mercato per un prodotto di elevato pregio era limitato e il formaggio della valle del Bitto era destinato al commercio a distanza raggiungendo Bergamo, Como, Milano e oltre.
In un'opera (edita dopo soli tre anni dal documento citato e che rappresenta una guida gastronomica ante litteram) l'umanista Ortensio Lando raccomanda ai lettori relativamente ai territori valtellinesi e valchiavennaschi: " Non ti scordar... anche i maroni chiavennaschi, non il cacio di melengo [Valmalenco], et della valle del Bitto” (2).

Si può star certi che qualche indagine diretta ai commerci dell'epoca porterebbe sicuramente in luce la presenza del formaggio della Val del Bitto sui mercati delle città citate già nel Cinquecento (e molto probabilmente anche prima).
In Valtellina un altro documento che cita espressamente il formaggio della Val del Bitto era già  segnalato da don Giovanni Da Prada ed è stato esaminato direttamente da Cirillo Ruffoni presso l’archivio di Stato di Sondrio.  Questo documento riferisce che il 26 febbraio 1596, Bernardino figlio di Gaspare Tassella di Sondrio promette a Gian Pietro figlio di Gian Giacomo Parravicini di Sondrio, di consegnare i seguenti beni: 67 condi di vino; due pezze di panno bianco di braccia 30; 30 forme di formaggio della valle del Bitto (casei vallis Bitti).
Questa forma c'è ancora. Storia vivente. Il formaggio storico Val del Bitto (caseus Vallis Biti) è sempre quello: prodotto solo nella valle del Bitto, con il latte di capra Orobica, senza fermenti e mangimi industriali



Nel secolo successivo in un registro dell’ Hosteria granda di Tirano -  il più qualificato esercizio alberghiero della Valtellina dell'epoca – in data 1629 e 1671 si rinvengono annotazioni relative alla vendita di alcune forme di "formaggio Val del Bitt". Vengono riportati i prezzi di acquisto di alcuni formaggi e quello "Val di Bitt", venduto a 11-13 lire il peso,  è superiore anche al "formaggio grasso tedesco" (venduto a 9 lire il peso) mentre il "formaggio grasso" valtellinese era venduto a sole 5 lire il peso. Probabilmente il "valtellinese" era un formaggio dell'ultima stagione di alpeggio, poco adatto alla lunga stagionatira mentre il Val del Bitt sarà stato un formaggio di 2-3 anni. Dopo secoli le cose non sono cambiate.
Fino al 1993 il "formaggio grasso della Valtellina" ha continuato ad essere chiamato così (vedi il marchio della Camera di Commercio). Con il riconoscimento della dop, miracolosamente, il "formaggio grasso Valtellina" che solo sino a due anni prima non poteva essere marchiato "Bitto" è stato promosso a Bitto da quelle stesse istituzioni che "certificavano" che il Bitto doveva essere prodotto solo negli alpeggi della comunità montana di Morbegno (e non in Valchiavenna, né in alta Valtellina, né nella comunità montana di Tirano e neppure in quella di Sondrio).

Un vero miracolo della politica perché la Dop presuppone una produzione attestata da almeno 25 anni. Nel caso del Bitto la "storicità" della produzione del Bitto in Valchiavenna, in alta Valtellina, nella comunità montana di Tirano e in quella di Sondrio... è stata limitata a due anni). Nessuno ha contestato, nessuno ha obiettato, la regione ha accettato, il ministero anche, l'Europa pure. Cosa certificano Regione, Ministero, Europa?
 Al formaggio storico della Val del Bitt basta e avanza il certificato di denominazione attribuito dalla storia, un certificato che vale infinitamente di più delle certificazioni burocratiche dove la politica può capovolgere la verità.


Note


(1) F. PRANDI (2014) “Fritole e trutalia”: che cosa si mangiava nella media Valtellina nel Seicento, in Bollettino della Società Storica Valtellinese n. 67, p. 236. Riferimento: ASSo, Notarile, n. 774, Paolo Ferrari, sabato 5 luglio 1550.



(2) G. DA PRADA (1955) Il Bitto e il Sassella nel secolo XVIin Elzeviri di toppa, 1955, pp. 23-24; ASSo, Notarile, Bartolomeo Malacrida, vol. 1677, ff. 252-253.


(3) O. LANDO (1553)  Commentario delle piu notabili, & mostruose cose d'Italia, & altri luoghi: di lingua Aramea in italiana tradotto. Con vn breue catalogo de gli inuentori delle cose che cose che si mangiano et beueno, nouamente ritrovato, Cesano Bartolomeo, Venezia, p. 7.(4) D. ZOIA (1996) L' "Hostaria granda" di Tirano : Approvvigionamenti, arredi e servizi di un albergo nel secolo XVII  in: Bollettino della Società storica valtellinese, n. 49 :143-174.

(4) D. ZOIA (1996) L' "Hostaria granda" di Tirano : Approvvigionamenti, arredi e servizi di un albergo nel secolo XVII  in: Bollettino della Società storica valtellinese, n. 49 :143-174.




mercoledì 2 settembre 2015

Bitto storico: nuova fase. Con coraggio


da Cheese in poi sarà un  autunno di grandi novità.
Il 10 novembre si tireranno le fila di un accordo con le istituzioni sin qui a dir poco deludente. Intanto si cercano cultori della mungitura a mano  per la prossima stagione d'alpeggio



di Michele Corti




(02.09.15) La stagione d'alpeggio 2015 si sta chiudendo con una bilancio molto negativo in termini di quantità prodotta, causa della pesante siccità di luglio. Sul fronte dei rapporti con le istituzioni l'accordo siglato in pompa magna nel novembre 2014 si sta rivelando un bluff. Stimoli per i "ribelli del bitto" per rilanciare con forza l'originalità delle loro esperienza facendo leva sui suoi punti di forza

Sarà un autunno decisivo per il Bitto storico. L'accordo "storico" dello scorso anno, con tanto di presenza di assessore regionale a sancire la fine della ventennale "guerra del bitto", è rimasto in larghissima misura un pezzo di carta. Già questa primavera (28.04.15. Ciapparelli: va rispettato l'accordo sul bitto) era apparso chiaro che le istituzioni non avevano intenzione di onorare lettera e spirito di quanto faticosamente concordato. Non ci sarà comunque una ripresa della "guerra del bitto", che è ormai archiviata. La collaborazione con il Consorzio (Ctcb) si è rivelata possibile e non è in discussione la volontà di collaborare con tutti i produttori di bitto.
La sinergia tra bitto storico e bitto dop è possibile in un unico "sistema bitto", così come sarebbe possibile la sinergia con il sistema agroalimentare valtellinese (con le debite distinzioni tra ciò che è artigianale ed industriale). Il punto è un altro: ci sono interessi politici-imprenditoriali che non "digeriscono" ciò che il bitto storico significa: un modello di gestione economica indipendente, al di fuori di logiche clientelari e di  sottomissione ai "poteri forti", un modello che non transige su principi di trasparenza e onestà.


Dietro le istituzioni ci sono interessi organizzati che decidono quello che le istituzioni devono fare. La Camera di Commercio ha siglato solennemente un accordo, con tanto di benedizione della Regione, ma se qualche Don Rodrigo stabilisce che "quel matrimonio non sa da fare" i Don Abbondio delle istituzioni (peraltro legati da comunanza di interessi con i potentes) si adeguano e moltiplicano gli "impedimenti".
Di certo non induce i "ribelli del bitto" a piegarsi a condizioni poco onorevoli la constatazione che per rispettare l'accordo sul bitto i soldi "non ci sono" mentre per la deludente esperienza Expo si è assistito ai soliti sprechi di denaro pubblico. C'è tempo sino al 10 novembre per chiarire se un anno prima si era su "Scherzi a parte" o no.

La lezione della siccità

Paolo Ciapparelli, presidente del Consorzio bitto storico aveva stigmatizzato l'indifferenza delle istituzioni (mentre in Svizzera intervenivano gli elicotteri e i Canadair) rispetto alla disastrosa siccità che a luglio ha colpito gli alpeggi (23.08.15 Siccità sugli alpeggi. Colpiti i pascoli più sostenibili). Unica reazione quella della Coldiretti (Andrea Repossini si è recato al Centro del bitto storico a Gerola. Il calo di produzione ha colpito gli alpeggi in modo disomogeneo ma in alcuni la produzione è dimezzata (vacche che di solito davano 7-8 kg al giorno di latte scese a 3-4). In generale dove si produce bitto storico si è perso un 30%. Una "calamità", però molto circoscritta, che quindi non muoverà a iniziative di aiuto anche perché chi in alpeggio usa i mangimi ha risentito molto meno del calo produttivo. Chi non ama il "bitto ribelle", perché non si piega alla logica delle mucche-macchine-da-latte, dei mangimi industriali, dei fermenti industriali nel latte, si sarà fregato le mani. In realtà l'alleanza tra anticiclone africano e agroindustria è un fatto oggettivo: la zootecnia intensiva, con l'uso di mangimi, concimi chimici, carburanti contribuisce pesantemente alla produzione dei gas serra mentre i  sistemi di pascolo estensivi sulla base di ricerche sperimentali eseguite in Trentino,  sono caratterizzati da un assorbimento
netto di gas serra (Berretti F, Baronti S, Lanini M, Maracchi G, Raschi A, Stefani P, 2007. Bilancio dei flussi di tre gas serra (CO2, CH4, N2O) in un prato-pascolo alpino: confronto tra 2003 e 2004. Clima e cambiamenti climatici: le attività di ricerca del CNR.)


I virtuosi, come i produttori del bitto storico, che seguono la filosofia dell'adattamento all'ambiente, del riciclo di materia, del minor consumo possibile di energia fossile, subiscono le conseguenze del cambiamento climatico, chi ne è responsabile ne sfugge largamente.  Il perché è facile a dirsi: il meccanismo del mercato mondiale, la spinta alla risparmio di manodopera, all'uso di energia vanno in direzione contraria alle esigenze di salvaguardia ambientale. Il microcosmo del bitto riflette un dramma mondiale. Il punto è proprio questo: finché vigono la logica del mercato globalizzato, del cibo ridotto a oggetto di speculazione, la prevalenza politica degli interessi industriali e speculativi le politiche sull'ambiente e il clima sono solo green washing, foglie di fico, anzi spesso pretesti per operazioni green (vedi biocombustibili) che determinano più acuto sfruttamento dell'uomo e delle risorse ambientali.


Di fronte a questi problemi planetari cosa può fare il bitto storico? Essendo diventato un simbolo concreto di un'economia morale che fa appello ai valori (oltre a una qualità indiscutibile) per affermare logiche che con il mercato hanno poco a che fare e che... continua (contro ogni previsione) a vivere, esso può fare molto in termini di esempio. Può contagiare altre realtà con la sua utopia concreta e positiva (folle è invece il "realismo" di chi pensa che i meccanismi del mercato e del profitto possano "aggiustare" un pianeta malato). Ma per farlo deve giocare fino in fondo il proprio ruolo. E come? Tanto per comunicare comunicando al consumatore, al coproduttore (parliamo sia di consumatori attivi che di chi ha sottoscritto quote della società che supporta commercialmente l'avventura del bitto storico) cosa costa restare fedeli a un programma di rispetto del latte, dell'erba. Cosa significa subire i contraccolpi di condizioni naturali incontrollabili, di una natura che diventa matrigna con chi la rispetta (forse perché si ribella a chi non la rispetta).
Al consumatore si mostrerà come "sorge" il prezzo a partire da quanto conferito al primo produttore (l'alpeggiatore che consegna al Centro il bitto ancora fresco a settembre). Un prezzo che potrebbe premiare in modo differenziato non solo la qualità intrinseca ma anche il grado di fedeltà ai principi che fanno del bitto storico un prodotto che è un modello di qualità da secoli (c'è un nuovo bellissimo documento del 1550 che lo conferma di cui parleremo in un prossimo articolo).

Produrre bitto storico e mungere a mano è rivoluzionario... ma non esattamente in questo senso

Una nuova "leva" di ribelli

Il bitto storico è un grande movimento di opinione, forse anche qualcosa di più. Il fatto che intersechi i confini rigidi ma convenzionali di economia, società, morale, politica lo rende pur nel suo microcosmo capace di innescare processi imprevedibili. Sinora la capacità di scompaginare le carte, di non accettare le "regole del gioco" imposte da chi è più forte gli hanno consentito di sopravvivere (il che è già una vittoria strepitosa contro ogni previsione). Oltre a coinvolgere maggiormente i coproduttori (acquirenti, soci della società "Valli del bitto") il bitto storico intende anche coagulare e capitalizzare quel più ampio movimento di persone (gli "amici del bitto storico") che lo appoggia perché ne ammira la coerenza con valori che altri proclamano ma si incaricano di smentire ad ogni occasione.
E poi c'è una iniziativa che si sta già mettendo in modo quando la stagione d'alpeggio non è ancora finita: la ricerca (e la selezione) di cultori della mungitura a mano in grado di sopperire alla crescente "fame" di  pastori capaci di mungere un numero adeguato di vacche (e di farlo bene). Ci vuole molta più manodopera negli alpeggi che praticano la mungitura a mano e manodopera non qualsiasi.
L'idea è di allargare la "chiamata" a tutti coloro che in Italia, in Europa e anche più in là sono esperti e appassionati di mungitura a mano e desiderosi di fare un'esperienza in una realtà di rilievo internazionale come quelle del bitto storico. Giovani e meno giovani, ragazzi e ragazze. Forse chi viene da realtà di montagna e da una cultura pastorale è senz'altro un miglior candidato "naturale" ma tra chi oggi pratica la mungitura a mano in piccole aziende attentissime al benessere animale e alla qualità del latte ci sono anche giovani che si sono sottratti ad un'esperienza metropolitanae che possono supplire con la motivazione.
Per chi riuscirà a inserirsi nella realtà del bitto storico c'è la possibilità di assimilare una grande esperienza, magari con la prospettiva di lavorare tutto l'anno, di acquistare dei propri animali (partendo dalle meravigliose capre Orobiche). Il bitto storico vuole essere incubatore di iniziative di giovani coraggiosi e non conformisti.

Intanto c'è l'appuntamento di Lenna

L'interesse al di là di ogni previsione del "campionato mondiale di mungitura" che si terrà anche quest'anno a Lenna presso buoni amici del bitto storico (22.08.15. Dalle Puglie con la sua mucca  per la gara di mungitura a mano) è significativo (come nel caso delle gare di falciatura a mano) di un interesse per mantenere "arti" che la modernizzazione ha largamente messo in soffitta ma che hanno accompagnato la storia dell'umanità e che è sbagliato abbandonare.


Andrà chiarito che non basta amare "platonicamente" la montagna e gli animali (come tanti ragazzi di città) ma che bisogna avere esperienza o essere psicologicamente e fisicamente attrezzati per lavorare tre mesi in montagna in condizioni che per alcuni aspetti sono "quelle di una volta". Certo con le gratificazioni - per chi le sa apprezzare e ricercare - del contatto con gli animali, con persone schiette, con i cieli stellati e le fredde albe della montagna.  Qualcuno che pensa di essere già in grado di fare il pastore e di mungere quindici vacche dovrà magari accontentarsi di fare il cascin il "pastorello" (comunque pagato) e di "farsi le ossa".


L'importante è non piantare in asso chi conta su di te dopo una settimana o un mese, quando diventa un problema rimpiazzare che lascia. Per questo la "selezione" sarà severa.  Del resto da tempo il bitto storico ha in programma di allestire una "stalla didattica" e una "scuola di alpeggio" e questo tipo di iniziativa (la leva del bitto, ovvero dei nuovi pastori) rientra nelle sue corde.  Non è mai stata una realtà economica punto e chiuso, tanto meno commerciale quella del bitto. Dall'inizio c'era il programma di rilancio della montagna, di rivitalizzazione a partire dalla valorizzazione e dalla gestione di quelle che sono preziose risorse, in modo autonomo e senza dipendere da aiuti e direttive dall'alto. Al programma di vent'anni fa il bitto storico sta tenendo fede. E andrà avanti anche se le istituzioni continueranno a boicottarlo. Devono sapere, però, che qualora - come è inevitabile - ci saranno dei rivolgimenti, chi oggi combatte il bitto storico per l'egoismo di interessi consolidati, sarà chiamato a renderne conto davanti alla comunità.


Ti candidi per diventare "pastore del bitto storico"?

scrivi a:

info@formaggiobitto.com

requisito(da accertare in largo anticipo prima dell'alpeggio)
mungere a mano 15 vacche
adattarsi alla vita spartana ed esposta agli agenti atmosferici dell'alpeggio


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