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venerdì 4 novembre 2011

Dal Bitto storico al futuro dell'alimentazione (e dell'umanità): le riflessioni di Piero Sardo

(02.11.11) Ieri sera Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la biodiversità ha concluso con una conferenza  la tre giorni di "Formaggi in piazza". Che guarda già all'edizione 2010

A Sondrio Piero Sardo ha affrontato i grandi temi delle produzioni di piccola scala, nonché di origine e qualità specifica, all'interno del più ampio tema della sostenibilità del consumo alimentare. Partendo dal Bitto storico, emblema del cibo buono pulito e giusto. Lungi dall'alimentare contrapposizioni e polemiche Piero Sardo ha lasciato intendere sin dalle prime battute del suo intervento che l'indicare nel Bitto storico un emblema del cibo buono pulito e giusto non deve essere inteso come una svalutazione o una delegittimazione di altre produzioni. Di seguito la sintesi dell'intervento.
Chi produce l'altro Bitto lo fa nella maggior parte dei casi convinto di sostenere una bandiera della Valtellina, di esprimere attraverso questa produzione la storia e l'dentità del territorio. Ciò a cui si richiamano i produttori storici però è diverso.
Il Bitto storico come altri prodotti è legato ad un'origine e caratteristiche molto specifiche, a un luogo ben definito, molto concreto nella sua originalità. Una generica identità di un ampio territorio e una origine ben specifica e delimitata sono cose diverse, non sovrapponibili. Di fatto, però, le produzioni che provengono da questi luoghi e hanno conservato caratteristiche molto peculiari sono le più
fragili, le più deboli. Si tratta di realtà che hanno mantenute ferme scelta di produzione più difficili, che comportano volumi quantitativamente ridotti di prodotto e, inevitabilmente, richiedono ai fini di una remunerazione accettabile dei prezzi più elevati.


Nei decenni trascorsi pareva obbligata e auspicabile una scelta diversa. Si voleva a tutti I costi raggoiungere una massa critica, necessaria per accedere ai meccanismi della grande distribuzione: "Servono 20 mila forme".  Le produzioni di origine specifica, legate a territori molto circoscritti e con caratteri specifici non possono e non potranno mai raggiungere la "massa critica". Dedicando tutte le attenzioni alla massa critica però si è sacrificato molto, si sono sacrificati i luoghi di origine a favore di territori più ampi e meno svantaggiati. Questo fenomeno è avvenuto in tutto il mondo.  
Le esperienze maturate in molte realtà ci suggersicono però che qualcuna delle produzioni di origine specifica legate a territori corcoscritti può resistere se sussistono tre elementi. Il primo fattore in grado di aiutare la resistenza delle piccoole produzioni è rappresentato dalla capacità del consumatore di riconosce e apprezzare il prodotto quale espressione storica e culturale; se il territorio stesso non lo riconosce non c'è alcuna prospettiva. Vi è poi un'altra condiuzione criciale, un passaggio veramente complicato: l'innesco di meccanismi che inducano il consumatore  a spendere di più per prodotti che in ragione di quanto sopra richiamato sono caratterizzati da bassa produttività e quindi da prezzi più elevati rispetto ai prodotti di massa.


Oggi qualche prodotto di origine riesce a sopravvive perché la situazione cominicia a cambiare. A dimostrazione dell'esistenza di un trend positivo dei comportamenti del consumatore va citato l'aumento dei consumi dei prodotti dell'agricolatura biologica, un aumento che lo scorso anno nonostante la crisi ha toccato il 16%. Indipendentemente dalle valutazioni sulla validità dell'agricooltura bio (che comunqe secondo comporta un minor uso di pesticidi e concimi chimici) lo spostamento dei consumatori verso il biologico, in piena crisi economica, evidenzia un cambiamento psicologico in atto. In precedenza erano solo solo alcuni illlusi, sognatori, che si rivolgevano ai prodotti bio. Oggi la penetrazione del prodotto bio è generalizzatà, indice di una diversa disponibilità a pagare di più per certi prodotti.
Resta il fatto che non è facile educare il consumatore ad acquistare prodotti più costosi che, oltretutto si caratterizzano anche per un gusto caratterizzato, a volte aggressivo. Un indice della diseducazione alimentare è riscontrabile nella tendenza dei consumatori a non rifiutare gli alimenti contenenti olio di palma. Un olio che è quasi interamente costituito da grassi saturi (in misura molto superiore al burro ingiustamente criminalizzato) e responsabile della deforestazione di ampie aree del mondo. Purtroppo si fa poca educazione nutrizionale e ancor meno educazione alimentare.  Di conseguenza i consumatori non si pongono interrogativi quali: "come è possibile produrre tutto l'anno", "come è possibile trovare prodotti come le carni a metà prezzo". Lo stresso mantenimento di elevati consumi di carne, anche a livelli nocivi per la salute conferma che siamo lontanissimi dalla diffusione di una sana educazione alimentare.


Per salvare le piccole produzione il consumatore dovrebbe avere più informazioni ma se l'educazione alimentare (scolastica e non) è carente, ancora di più lo è quella veicolata dall'industria stessa attraverso le etichette dei prodotti.  Le etichette non ci raccontano nulla e per queso la filiera corta  è tanto utile e auspicabile. Chi se non un operatore entro una filiera corta può raccontare come è stato ottenuto un prodotto?  Non certo il banconista del supermercato che non sa spesso indicare quale di due formaggi è quello più stagionato. Invece sarebbe indispensabile per orientare le scelte sapere se il produttore ha usato fermenti industriali, se ha usato la carne congelata, quanto ha stagionato il  formaggio. Latte caglio e sale recitano - per legge - le etichette e niente di più. Ma che caglio si è usato? Animale, microbico, vegetale, transgenico?
Il consumatore ha estremo bisogno di informazioni sul "pulito" (al buono ci arriva da solo: "se non mi piace non lo compro più"). Ma  con la bocca a certe informazioni non ci arrivo Hai usato pesticidi? Bisogna pretendere di più, di avere più informazoni che ci consentano di scegliere.
Vi è però un altro punto cruciale anzi decisivo: gli uomini. L'esempio del Bitto è importante proprio per questo. Qui abbiamo a che fare con personaggi che hanno rifiutato le regole del prodotto industriale. Senza questo atteggiamento di resistenza, un po' cocciuto un po' inspiegabile in una società del consumo che cerca solo di ottenere i soldi in fretta è difficile spiegare perché si resta attaccati ad un lavoro più scomodo, più faticoso, più lente Ora questo lavoro è più remunerato di qualche anno fa ma quella dei produttori del Bitto storico resta una scelta poco moderna determinata da un fattore umano di fedeltà al luogo di origine. Per fortuna ci sono anche altri esempi. Noi di Slow Food li chiamiamo "presidi" ma, per fortuna,  ci sono altre forme di resistenza al di là di Slow Food che rimane comunque una realtà piuttosto piccola.


Grazie allo sforzo dei suoi sostenitori il Bitto storico è ben pagato. Troppo? Va detto che non è obbligatorio comprare cibi costosi ma che prezzi elevati sono indispensabili per remunerare i produttori. Il Bitto, in ogni caso, lo si vende e questo è un passo avanti straordinario rispetto ai formaggi italiani. Il Bitto storico non è un alimento di base, non è un cibo quotidiano. Qualcuno però si chiede: "se tutti dovessero vivere mangiando culatello e Bitto storico mangeremmo tutti?"  Intanto va ricordato che noi, solo in Italia, buttiamo via milioni di tonnellate di cibo nella spazzatura. Il consumo è una macchina mostruosa. Ridando voce alle comunità locali. al cibo locale si possono recuperare molto sprechi. Inoltre non si deve dimenticare che, al di là del cibo che va nella spazzatura è possibile ridurre molto i consumi  oggi eccessivi. Non diciamo comunque che l'industria non deve avere alcuno spazio. Essa, però deve dimostrare di operare con coscienza e rispettando la fertilità, il benessere animale, l'equità sociale. Se consideriamo questi aspetto l'agricoltura industriale non può avere futuro e l'unica alternativa è l'agricoltura a piccola scale.

All'esposizione è seguito un breve ma intenso dibattito alimentato da alcune domande cruciali da parte del pubblico. Le notizie della giornata, relative all'aggraversi della crisi finanziaria aleggiavano su questo dibattito inducendo alcuni a considerazioni pessimistiche. La tentazione a considerare il tema del cibo "buono, pulito e giusto" quale aspirazione utopistica, edonistica ed elitaria traspariva da alcune domande poste a Piero Sardo motivate da sincera preoccupazione ma espressione della non ancora diffusa consapevolazza dei termini fondamentali della sostenibilità alimentare. Le risposte fornite da Piero Sardo hanno consentito di chiarire che l'agricoltura industriale si regge su un tragico inganno: noi paghiamo poco, troppo poco il cibo nella grande distribuzione ma paghiamo poi molto cari gli impatti negativi dei sistemi agricoli e zootecnici che hanno fornito all'industria alimentare le materie prime. Lo paghiamo già direttamente o indirettamente (attraverso la spesa pubblica) per le conseguenze dell'inquinamento delle acque, dell'aria, del terreno. Lo pagheremo sempre più in futuro (noi e le generazioni a venire) attraverso le conseguenze della perdita di fertilità, biodiversità, risorse non rinnovabili (compresa l'acqua). Sardo ha citato a questo proposito l'aforisma dell'economiata Kennet E. Boulding: "chiunque creda che una crescita esponenziale possa continuare per sempre in un mondo finito o è un pazzo o un economista".





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