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lunedì 27 agosto 2012

Comunicare gli alpeggi

(27.08.12) Appunti di ferragosto su alpeggi e loro problemi in margine alle riprese per la realizzazione di un libro fotografico sul casari del Bitto storico delle giapponesi Mai Hanano (Maika) e Keiko Kato

Comunicare gli alpeggi

(i loro formaggi, donne, uomini, ragazzi)

di Michele Corti

Il Bitto storico, "nemico pubblico n.1" della burocrazia di ogni ordine e grado continua a fare da apripista. Senza che nessuno ringrazi, anzi. Ma intanto i casari del Bitto storico diventano protagonisti di forme di comunicazione basate sull'espressione artistica, che sinora sono state appannaggio del mondo del vino. Perché il buono è anche bello e l'etica è estetica.

Anche quest'anno Regione Lombardia getterà al vento in tempi di crisi centinaia di migliaia di euro per sostenere la bolsa Mostra del Bitto (quello "ufficiale"). Vanno alla voce "promozione". Quella degli stand "istituzionali" vuoti, delle pubblicazioni che finiscono a marcire nelle cantine degli enti e che servono solo a foraggiare gli amici degli amici. Il Bitto storico (quello ribelle) da un fastidio immenso alla cattiva politica e alla cattiva burocrazia. Si fa promozione con la sua immagine pulita, con la sua capacità di resistere senza finanziamenti pubblici.  E ha tanti amici. Una sfida.

Maika (fotografa), Keiko illumina. Siamo alla casera dell'Alpe Orta Soliva e il casaro è Dino Papini. L'ho preso di spalle ma - in compenso - è stato ben ritratto da Maika

Chi appoggia il Bitto storico lo fa perché incarna nel modo più coerente possibile (la coerenza assoluta non è di questo mondo) i valori del cibo buono, pulito e giusto. Sono parecchi ad occuparsi di questioni agroalimentari ed enogastronomiche da un po' di tempo in qua. Per parecchi è un modo di cavalcare una tendenza per restare a galla, per trarne vantaggi. Gino Cattaneo, patron del Ristorante Hotel La Brace e in prima fila tra i "paladini" del Bitto storico è solito affermare che, dopotutto, c'è un grande ritorno per il tempo, e le risorse economiche impegnate nel sostegno alla causa dei ribelli del Bitto storico: la gioia di poter continuare a mangiare il vero Bitto. Quelli che appoggiano la causa del Bitto ufficiale e dei "cibi di plastica" (la bresaola di zebù congelato, i pizzoccheri di grano duro ecc.) lo fanno per mangiarci su, noi ci rimettiamo di tasca nostra ma lo facciamo per mangiarci il vero Bitto. Non è poco.


Anche Mai Hanano (Maika) e Keiko Kato, giapponesi con domicilio nei pressi di Nizza sono state fascinate dal Bitto storico. È stato Giacomo Mojoli (foto nella colonna a sinistra dietro il calice di vino) a parlare a Keiko e Maika del Bitto storico e di Paolo Ciapparelli ("il guerriero del Bitto"). Mojoli si occupa di comunicazione con riferimento particolare al cibo e al vino, è stato uno dei fondatori di Slow Food ed è presidente onorario di Slow Food Giappone. È corrispondente, con una sua rubrica “vino e sostenibilità”, di un prestigioso periodico distribuito sui voli giapponesi ANA. Al tempo stesso è stato colui che ha per primo assicurato il sostegno di Slow Food alla causa del Bitto ribelle (poi saldamente garantito dal forte impegno personale di Piero Sardo). Mojoli resta un grande amico e sostenitore del Bitto storico (chiamato anche in cattedra al Politecnico di Milano nell'ambito di un suo corso, vedi articolo) e rappresenta un ponte tra il Bitto storico e il Giappone. Conosciuto Ciapparelli a Cheese e in altre occasioni tramite Mojoli le due giapponesi nel 2009 hanno realizzato un primo servizio fotografico accompagnate da Paolo sugli alpeggi Trona soliva (dove a 80 anni continua a mungere le sue vacche il mitico Mosè) e Pescegallo Foppe. Quest'anno hanno deciso di recarsi in tutti gli alpeggi (12 attualmente) e realizzare un'opera sul tema dei "casari del Bitto storico". Informato da Ciapparelli della cosa mi sono dichiarato disponibile ad accompagnarle.

Comunicare il prodotto artigianale: la persona al centro

Le foto sul loro sito sono di vignaioli, compresi alcuni molto noti. Ci sono anche la vigna, la cantina, il vino ma rappresentano il contesto. Il soggetto è la persona. Per il semplice fatto - mi spiegavano poi quando ci siamo incontrati - che a differenza del vino di una grande cantina quello dei vignerons, degli artigiani del vino esprime fino in fondo la personalità, l'impronta di chi lo produce. Da un ritratto spontaneo e "naturale" di un vignaiolo si possono intuire molte cose sul suo vino. Una filosofia di comunicazione che segna la differenza tra la promozione del prodotto industriale (che associa al prodotto suggestioni più o meno artificiose) e di quello artigianale. Ad un vino naturale (so che sulla definizione ci sono disquisizioni a non finire ma lasciatemela usare) deve corrispondere una fotografia "naturale". E così mi pare, non sono un critico fotografico, quella di Maika.
Confortato da queste considerazioni ho affrontato tre giorni non proprio di relax per consentire a Keiko e Maika di realizzare un adeguato numero di scatti accompagnandole a piedi e in fuoristrada (Jimny e non nuovo). Doveva esserci una appendice di altri due giorni necessari a raggiungere alpeggi di non facile accessibilità (Cavizzola e Varrone) ma, grazie alla generosità di Gino è stato noleggiato un elicottero per concludere il servizio in un giorno. Vale la pena sottolineare - a proposito di auto-sostegno - che durante la loro permanenza in Valtellina Keiko e Maika sono state ospitate da Gino presso il suo locale (Hotel-Ristorante La Brace).

Da sn: I ruderi della casa di vacanze degli oratori milanesi "Pio XI" (bruciata dai tedeschi nel 1944 dopo che era divenuta rifugio di prigionieri, per lo più russi, e sbandati), il Pizzo dei Tre Signori, il Pizzo Varrone.

In realtà la buona volontà per recarsi in ogni alpeggio, anche a piedi, Keiko e Maika ce l'hanno messa. Il primo giorno, dopo avere incontrato Antonella Manni, casara dell'Alpe Trona Soliva e figlia di Mosè abbiamo pranzato al Rifugio omonimo dove si è confortati dall'atmosfera cordiale, calorosa e famigliare di Elisa Montani e di tutta la sua famiglia. Abbiamo mangiato tutti alla stessa tavolata: noi, la famiglia di Elisa e gli altri ospiti presenti (risotto con Bitto storico di Antonella e mirtilli dell'alpe Trona vaga cucinato dal papà di Elisa). Qui il clima è quello che si vorrebbe trovare in montagna. Con gli alpeggiatori ci sono ottimi rapporti e si utilizzano i prodotti dell'alpeggio. Il Rifugio sta anche diventando un punto di riferimento per i pastori e un tassello della filiera del Bitto storico tanto che Elisa ci racconta soddisfatta che tra due giorni ci sarà un po' di "bisboccia" con i pastori di Pescegallo foppe e Valvedrano. Peccato che non si uniscono anche quelli delle Trone che sono più vicini. Ma è già qualcosa, una bella iniziativa di socializzazione.
Lasciato il Rifugio siamo saliti alla Bocchetta di Trona (foto sopra)  a 2.000 m che segna il confine tra la Val Gerola e la Val Varrone (provincia di Lecco). Oggi qui transita un sentiero come tanti altri ma per millenni questa è stata una via di comunicazione importante (la via del Bitto) tra la Valtellina e Milano. Nell'alta val Varrone si trovano i pascoli e la casera dell'Alpe Varrone nostra meta. Siamo scesi per un certo tratto lungo il sentiero per vedere dov'era la malga (le vacche da latte). Purtroppo invece di essere alla "cima" ovvero in alto verso la Bocchetta era dalla parte opposta dell'alpeggio, molto lontana. Avremmo dovuto scendere, salire, ridiscendere e risalire. Ritornando indietro verso la Val Gerola ci siamo fermati alla baita (foto sotto) che rappresenta la "cima" dell'Alpe Trona Vaga. Qui abbiamo incontrato il casaro Carlo Maffezzini e il suo aiutante. Di Maffezzini ho già diverse foto e ho lasciato lavorare tranquille Keiko e Maika.

La baita di cima di Trona Vaga

Il giorno dopo abbiamo risalito l'altro ramo della valle del Bitto, quella di Albaredo verso il Passo S. Marco. L'Alpe Orta soliva è sulla strada e ci siamo fermati subito. Dino Papini, giovane casaro, stava completando le operazioni di caseificazione (foto all'inizio). Ne ho approfittato per ritrarre la casera che, come tutte, dopo la metà di agosto, racchiudono la loro preziosa produzione di Bitto storico.

La cantina dell'Alpe Trona Soliva

Al passo abbiamo incontrato la malga di Orta vaga, altra delle nostre mete. Sapevamo, però, che la casara (la giovanissima Cristina Gusmeroli) era già in basso alla casera e non l'abbiamo neppure cercata. Transitando lungo la strada ho fatto però vedere a Keiko e Maiko la deviazione che si stacca dalla strada transorobica per raggiungere la casera di Orta vaga dove avrebbero potuto recarsi anche da sole nei giorni successivi con la loro berlina. E così è stato. La baita della cima di Orta Vaga (foto sotto) è quasi in coincidenza del passo. Un punto strategico per la vendita diretta che la famiglia Gusmeroli ha opportunamente attrezzato con un semplice e spartano punto vendita.


La malga pascolava proprio in fregio alla strada e l'allegro concerto delle ciòche e trügn (campannacci) attirava gli automobilisti che si fermavano volentieri a fotografare la scena. Questa situazione, però dura pochi giorni. Passato il ferragosto si riprende la discesa (che nel caso dell'Alpe Orta vaga è molto lunga perché sui pascoli di Garzino si resta sino ad ottobre). L'interesse dei turisti per gli alpeggi c'è. Peccato che al Passo di S.Marco nessuno dei vari enti si preoccupi di segnalare che il Passo stesso è al centro di uno straordinario comprensorio di alpeggi. Al Parco (qui non si sa a quale dei due rivolgersi perché siamo sul confine tra quello valtellinese e quello bergamasco) interessa più poter dire che c'è l'orso. Un modo per poter fare dell'ambientalismo a buon mercato per distogliere l'attenzione (e qui vale per la parte bergamasca) dalle autorizzazioni delle gare di motocross sui sentieri del Parco (leggi articolo) e, peggio ancora, dalla realizzazione di nuovi sciagurati comprensori sciistici.


Nella malga di Orta vaga si distingueva la simpatica mezza Highlander della foto sotto.


Superato il Passo, dopo una lunga ridiscesa a valle e conseguente risalita a Cusio e Monte Avaro siamo arrivati all'Alpe Foppa. All'Albero-Rifugio ci avevano detto che "sono già scesi". In realtà il casaro Fulvio Colli era alla "cima", a un'ora e mezza di salita a piedi.

Così ci siamo accontentati di ritrarre la mamma del casaro, signora Acquistapace, figlia di caricatori e sorella del Faustino Acquistapace caricatore di Trona vaga.
Non è facile sapere quando un casaro si sposta da una baita all'altra. Va tenuto conto che negli alpeggi del Bitto storico si usano ancora diversi calecc' (capanne casearie in muro a secco coperte da una semplice tenda impermeabile) e che quindi localizzare il sito dove di lavora il latte in un alpeggio di centinaia di ettari non è facile. Sarebbe facile se prendessero i cellulari. Ma a fronte di tariffe elevate le coperture e la qualità del servizio in Italia lasciano molto a desiderare. In montagna non si può far troppo conto sui radiotelefoni. Gli alpeggiatori dicono che hanno le loro "cabine", posti particolari dove c'è un po' di segnale. Spesso però ora c'è e ora sparisce. 


Tornati al passo di S. Marco a mani quasi vuote (e oltre 70 km di strade di montagna macinate) andiamo all'Alpe Ancogno soliva. La baita in funzione è sulla deviazione della strada che porta al vecchio rifugio (Cà S. Marco). Qui il casaro è Carlo Duca un giovane che è già una leggenda perché ha firmato alcune forme ormai storiche (chi è interessato può leggersi i vari articoli che parlano del Bitto storico in questo sito). Lì stanno quasi per mungere anche se sono le tre del pomeriggio ma ritenendo che "tanto facciamo in tempo a venire dopo" decido di "fare" un'altra alpe: Parissolo. Il piede, a 1.600 m è raggiungibile con una strada di servizio del bacino idroelettrico di Ponteranica. Ora, però, sono anche loro "alla cima" a 1.800 m in una valletta. La "cima" consiste in un baitello che è poco più di un calecc'. Il giovane casaro (Lino Fognini) mi dice apertamente che sono quasi meglio i calecc' perché con il bel tempo si può sollevare la tenda e il fumo si allontana più facilmente. Invece la lamiera non consente al fumo di sfiatare se non per dei pertugi.


Arriviamo che hanno da poco iniziato a mungere le vacche. Qui i tempi sono diversi da Ancogno evidentemente e prima delle 18.30 la mungitura non è finita. Girare per gli alpeggi "nomadi" del Bitto storico è entusiasmante ma qualche problema c'è. A parte sapere dove stanno si deve calcolare a che ora si finisce di mungere e di lavorate. A inizio stagione il latte è molto ma le ore di luce sono di più e la malga è in basso. Dopo ferragosto il latte cala molto e finiscono prima di mungere. Ma viene buio preso e sono ancora in alto. Alla fine riuscire a girare più alpeggi e ritrarre i casari all'opera è impresa non facile. Va detto, però, che è preferibile fare gli "alpeggionauti" in agosto rispetto alle prime settimane di alpeggio. All'inizio ci sono più vacche da mungere, c'è tanto latte da lavorare. Il lavoro è massacrante. Per parlare, intervistare, chiacchierare, scambiare idee, fotografare, filmare consiglio caldamente di venire ad agosto quando tutti si stanno rilassando. Non c'è più nemmeno l'ansia della riuscita della stagione. A quest'epoca (come visto, le cantine sono piene).


Pur essendo a Ferragosto a Parissola la mattina fanno ancora due forme (foto sopra). Nel baitello lo spazio è angusto. "Una volta ci stavano i mansulèr" mi dice lo zio di Lino mentre prepara la minestra sbucciando patate e tagliano cetriolo. I mansulèr erano gli addetti al bestiame giovane che occupava le zone più alte del pascolo (sotto le pecore). La custodia non era continuativa e quindi il ricovero era più per l'emergenza. Guardando la carta, però, ho poi visto che la "Baita Parissola" è un rudere a quota ancora più alta. E se era chiamato così è perché ci lavoravano il latte. Dentro il baitello non solo c'è poco spazio ma anche una quantità di fumo che fa l'effetto dei lacrimogeni (conosciuto piuttosto bene).


Keiko e Maika stoicamente scattano. Io me ne sto fuori a chiacchierare con lo zio che mi prepara anche un caffè nel pignatìn. Un pignatìn totalmente annerito dal fumo che si può vedere nella foto sotto. Contrariamente a quanto si può supporre il caffè "alla turca" è buonissimo (non me ne meraviglio perché uso la napoletana, dopo aver rottamato tre macchinette espresso).


Per far vedere il pignatìn ho invertito la cronologia delle foto. Sotto il più giovane dei pastori (i pastorelli si chiamavano cascìn ma  lui è grande in confronto ai bambini di 10 anni che svolgevano un tempo le mansioni ausiliari sull'alpeggio)accompagna le capre verso il pascolo serale (fortuna che l'orso M13 ora è in Südtitol). Poi ha un'altra incombenza: il trasporto a valle della maschèrpa (la ricotta grassa con latte intero di capra). I garocc' di legno oltre che a funzionare molto meglio dei cestelli di plastica per lo spurgo si trasportano anche bene. Nella foto sopra il ragazzo si carica la cadùla in spalla (un telaio in legno) per portare a valle la golosa maschèrpa


Caricatasi la cadùla in spalla, con i garocc' pieni di maschèrpa in spalla, il ragazzo inforca la moto da trial. La usa anche per portare i bidoni di latte alla baitella (la distanza è breve ma svolgendo da solo questo compito a piedi sarebbe impossibile). In questo modo il latte viene aggiunto amano a mano nella caldèra di rame e perde meno di "caloria". A fianco il fuoco del focolare, utilizzato per cucinare dallo zio, è lì pronto per scaldare la caldéra quando la mungitura sarà finita e bisogna riportare su la temperatura. Lino mi comferna che anche questo parametro varia di almeno 2 °C in funzione della qualità della pastura. Il cascìn fa bene a usare la moto. Fanno malissimo i trialisti che ho incontrato salendo qui a Parissola e anche il giorno prima salendo alla Bocchetta di trona. Ma non voglio ripetermi troppo.


Mentre il cascìn porta le capre al pascolo gli altri pastori danno l'erba alla malga delle mucche. Oggi è facile, basta spostare i picchetti di plastica che reggono i fili elettrificati. Di buona lena le mucche attaccano a mangiare la cèna (area di pascolo serale). 


Giornata successiva. Tre alpeggi, tutti raggiunti in macchina ma su piste non proprio rilassanti. Si inizia con Pescegallo foppe. Alla baita alta assistiamo alla lavorazione della ricotta da parte dell'aiuto casaro. Poi scendiamo con il casaro capo, Michele Lombella alla casera. La casera di Pescegallo Foppe è una delle più belle perché conserva una mascherpéra come si deve. Sotto una foto "storica" di quando era casaro Giuseppe Giovannoni. La mascherpéra era piena di maschèrpe belle stagionate, belle fiorite, con la piuma. Oggi la stessa foto è impossibile perché ci sono quattro maschèrpe in croce.


Non sono passati che quattro anni ma tutti i casari mi hanno ripetuto lo stesso ritornello: "Ce le bruciano via fresche, perché rischiare e fare fatica a curarle se te le portano via?". È il mercato che detta le sue condizioni. Ma dietro il "mercato" c'è la corruzione del gusto. La maschèrpa piace fresca perché da qualcosa di più di una Vallelata ma non inquieta con quelle muffe colorate il consumatore. Così, però si perde quasi tutta l'originalità della maschèrpa che diventa irresistibile quando, a patto che sia salata poco, si fa compatta, presenta note sensoriali che definire intriganti non è frase fatta. Chi la conosce lo sa. Fantastica dopo un mese o due poi è perfetta da scagliare su vari tipi di piatti (verdure cotte, pesce d'acqua dolce ecc.). Che tristezza le mascherpére vuote! Combattute dall' ASL (che le ha devastate segmentandole in locali senza adeguata circolazione d'aria e che coperture in lamiera) e adesso massacrate da un mercato che si calibra i gusti su Philadelphia, Vallelata e roba simile. Sarà possibile una riscossa?


Cosa direbbe un casaro storico come Plinio Curtoni classe 1925 il cui nome è inciso qui sulla porta della casera di Pescegallo Foppe?


Michele è impegnato nella salagione a secco, il locale è ampio e ne approfitto per immortalare la scena di Keiko e Maika che fotografano il giovane casaro.


Anche queste foto ricordano quelle scattate a Giovannoni mentre esegue la stessa operazione. E chissà quanti sono i casari passati da qui. Qualcosa passa qualcosa resta.


Da Pescegallo Foppe, non prima di esserci rifocillati alla "base" ovvero al Centro del Bitto, ci siamo trasferiti a Bomino soliva (caricatore Samuele Martinoli, casara la moglie Donatella Aguadri, la figlia Serena, il pastore Paolo). Lì abbiamo atteso la mungitura e poi l'avvio della lavorazione. Il caldo era intenso. Abbiamo lasciato Bomino alle 19. La lunga sosta a Bomino mi ha consentito di fare un po' di foto montate con la colonna sonora originale della malga del Bomino. Il risultato è un breve video.


Non me la sentivo di "fare" un altro alpe ma Keiko e Maika hanno insistito. Procedendo a velocità sostenuta siamo tornati a Gerola alta, abbiano risalito la strada di Castello e Laveggiolo per entrare in Val Vedrano. La corsa sarebbe stata inutile se non avessi saputo (me l'hanno detto al Rifugio Trona Soliva due giorni prima) che il casaro di Vedrano, Angelo Acquistapace la mattina avrebbe fatto il cambio dalla "cima" (Colombana, molto alta e senza strada) alle baite del Piazzo a 1.900 sulla strada per il Rifugio. Avendo fatto il trasloco era logico aspettarsi un ritardo nella mungitura e così è stato. Siamo arrivati dopo le 20 ma non si era iniziato a lavorare il latte. Siamo venuti via alle 21. Ormai buio.
Oggi Keiko mi ha inviato le foto. Il risultato è decisamente all'altezza delle aspettative. per ora non voglio e posso dire altro. La fatica spesa, l'impegno di Paolo, di Gino soprattutto e anche mio è valso la pena. I Paladini del Bitto storico vanno avanti.

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