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domenica 6 agosto 2017

Alpe Bomino: passato e presente dello storico formaggio

(foto di Michele Corti, Albino Mazzolini e archivio Ruralpini)

Una valle incantata, oggi isolata (a torto) anche dai circuiti escursionistici, ma in passato trafficata da carovane cariche di formaggi e di carbone di legna. Qui, dal 2000, la famiglia Martinoli (Samuele e Donatella, ai quali si è affiancata gradualmente la figlia Serena) produce il bitto (ora "storico ribelle").


(01.08.17) Siamo tornati all'alpe Bomino il 13 luglio scorso. C'ero stato l'ultima volta il 18 agosto 2012. Quest'anno la malga [qui e altrove nelle Orobie con il significato di "mandria da latte"]  stava per lasciare la parte bassa del pascolo, mentre cinque anni fa vi era appena ridiscesa. Combinazione ha voluto che l'incontro con i Martinoli, la famiglia che  gestisce l'alpe, sia avvenuto nello stesso punto (alla baita della Sponda), proprio dove era in corso la mungitura cinque anni fa. Allora avevamo prodotto questo mini video


Un alpeggio con tanta storia


"Qui non si vede niente - dice Samuele Martinoli, che da diciassette anni viene qui per l'alpeggio - solo sulla cima, nel mese di agosto, si vede qualche bergamasco, ma attraversano, non scendono, proseguono sulla cresta. Qui non passa quasi nessuno, solo qualche amante del rampeghino".




L'alta valle di Bomino vista dalla casera di Bomino soliva


Ben diverse, però,  dovevamo essere le cose tra il XVI e il XVIII secolo. Per la valle di Bomino passava allora l'antica via mercatorum (il percorso che da Averara risale la val Mora per superare la dorsale orobica in corrispondenza del passo del Verrobbio, a 2022 m) . Scendendo per la valle di Bomino si proseguiva poi verso Morbegno. Il passo era chiamato anche degli "zapelli di Verrobio" (zapèi de Verobi), dal termine lombardo utilizzato per definire un passaggio stretto e obbligato con gradini (c'erano anche i zapèi de la vriga, per arrivare all'Aprica).

 Il passo del Verrobbio (dal nome della montagna vicina), a testimonianza dell'importanza dell'antico tracciato, era noto anche come passo di Morbegno. Prima dell'apertura della più agevole via Priula, che con un nuovo tracciato  - progettato ad hoc -  superava il crinale in corrispondenza dell'attuale passo di San Marco, l'itinerario era comunque piuttosto frequentato, anche se i muli non potevano transitare a carico pieno. In alcuni tratti  i muli dovevano persino essere scaricati, costringendo i mulattieri a caricarsi sulle loro spalle la mercanzia.


La malga di Bomino vaga (allora ben più numerosa di oggi) zona del passo del Verrobbio in una foto d'archivio (Ruralpini, 2003)


Notizie per noi molto interessanti in merito ai traffici per il Verrobbio, emergono dalla documentazione relativa all'annosa contesa sui diritti di passaggio del passo stesso.  Essa si protrasse per sessant'anni, a cavallo tra Seicento e Settecento, e riguardava il tratto di percorso attraverso le alpi Ancogno e Col effettuato dalle malghe dei bergamini bergamaschi per raggiungere l'alpe Bomino, da essi rilevata in affitto dalla parrocchia di Gerola che ne era proprietaria. Dopo aver risalita la Priula da Mezzoldo, dovevano - raggiunta la cantoniera di San Marco - percorre la vecchia via attraverso il Verrobbio. I proprietari delle alpi di Ancogno e Col, sul versante brembano, pretendevano che i bergamini scendessero per la via Priula sino a Morbegno e risalissero la Valgerola o, in alternativa, che corrispondessero loro esosi pedaggi. La causa, che si trascinò con pesanti costi legali per entrambe le parti (si svolgeva a Venezia), si concluse solo nel 1726 con una composizione ragionevole tra i privati proprietari delle alpi Ancogno e Col e la parrocchia. Avrebbero potuto arrivare settant'anni prima alla stessa soluzione risparmiando molte spese.


In: bianco = piste forestali gippabili, rosso = sentieri pedonali, giallo = strade asfaltate (Mappa delle vie dei Principi delle Orobie)


La ricca documentazione relativa alla causa del Verrobbio, che coinvolse anche le autorità pubbliche del tempo (il podestà di Morbegno e il capitano e podestà di Bergamo), ci consegna notizie interessanti sulla storia del bitto, desunte dalla documentazione conservata nell'archivio della chiesa di San Bartolomeo di Gerola - proprietaria dell'alpe Bomino -  e consultata da Cirillo Ruffoni (1).

Nel 1693 il Podestà di Morbegno reclama il diritto di libero transito attraverso il passo, sottolineandone il valore commerciale, e mette in evidenza - oltre le importazioni dalla bergamasca in Valtellina - anche la “quantità grande di bestiami e tutta la grassina [formaggi] che si fabbrica ne [sic] monti vicini a quei paesi” e che si dirigeva verso la bergamasca. Circostanza confermata, nel 1701, dal podestà e  capitano di Bergamo che sottolinea come l'itinerario attraverso il passo del Verrobio servisse a “racoglier le carni et grassine per beneficio della città di Bergamo et de pubblici datii”.

 È interessante notare come, nel periodo considerato, non solo Bomino ma anche le alpi Pescegallo e Dosso cavallo, fossero caricate da bergamini bergamaschi (in particolare gli Arioli di Piazzatorre) e che quindi buona parte del bitto della Valgerola venisse prodotto da bergamaschi che, alla fine della stagione, lo trasportavano in val Brembana.

Nell'appello dei sindaci della chiesa di Gerola, redatto ai fini della causa, si ribadisce che - a memoria d'uomo - il transito per l'itinerario contestato dai proprietari delle alpi Ancogno e Col, era sempre stato ininterrottamente praticato e libero per “condurre animali d'ogni sorte dalle valli Averara, Torta e oltre nelle terre di Gerola, Pedesina, Volusa [Rasura?] e Sacco” e che “per suddetta strada e passo di Varobio e Morbegno si conduce gran quantità di formaggi da dette terre in Bergamasca”. Queste notizie, come - de resto  quelle relative all'alpe Trona - ci dicono che la produzione del formaggio d'alpe in Valgerola, nei secoli XVI-XVIII, era gestita per lo più da bergamaschi e valsassinesi e che dalla Valgerola il formaggio era portato a Bergamo (o a Lecco, insieme a quello dell'alta Valvarrone). Con buona pace di chi considera il bitto un formaggio d'origine "valtellinese". Un equivoco legato al fatto che, in effetti,  una minima parte della produzione (rispetto a quella, ben maggiore, esitata a Bergamo, Lecco) era esitata sulle piazze valtellinesi con il nome, evocativo di grande pregio, di "fromaggio [sic] della valle del Bitto".




La parte bassa della valle di Bomino vista dalla casera di Bomino soliva


La valle di Bomino si presta bene ad illustrare le relazioni economiche e i movimenti di uomini, animali e merci tra il versante brembano e quello della Valgerola, ma anche l'intreccio tra l'economia dei pascoli e dei boschi e quella delle miniere e degli impianti siderurgici.
Un'economia che vedeva impegnate importanti e ricche famiglie che, a volte, mantenevano rami sui diversi versanti orobici  per sfruttare meglio le opportunità dei traffici (non sempre leciti) attraverso i confini. Ancora nei primi decenni del Settecento la val Bomino (molto boscosa nella sua parte bassa, come si vede nella foto sopra) forniva grandi quantità di carbone di legna per la fusione del minerale di ferro, estratto nelle miniere d Trona. Nel XIX secolo, dopo l'unità d'Italia, diversi beni della parrocchia di Gerola vennero incamerati dallo stato e messi in vendita a privati. La forte intensificazione ottocentesca dell'attività d'alpeggio portò alla divisione in due proprietà della valle: la "soliva" e la "vaga".  Il "vago" è più ombroso, esposto a NO, il “solivo” a SE. Ma al "vago" e al "solivo" sono in realtà le casere, che si guardano di rimpetto. Risalendo la valle i pascoli dell'una e dell'altra proprietà si scambiano di versante (per non penalizzare nessuna delle due "sorti" derivate dalla precedente proprietà unica).


La casera di Bomino soliva e la baita della Sponda (in alto) viste dalla casera di Bomino vaga (archivio Ruralpini, 2007)



L'evoluzione dello storico ribelle


Fatta questa premessa su Bomino del passato è utile inquadrare il ruolo di nella situazione attuale dello "storico ribelle". Lo storico ribelle (ex bitto storico) vive una stagione di transizione, tra nuovi successi e i "colpi di coda" di un establishment agroindustriale che ha sparato le sue ultime cartucce contro una realtà di resistenza contadina, casearia, rurale che continua a rappresentare per esso una spina nel fianco.

Le buone notizie sono date dell'apertura della nuova sede in centro storico a Morbegno (vedi l'articolo recente qui su Ruralpini) ma anche dall'allargamento della cerchia dei sostenitori e degli estimatori dell0 "storico". Purtroppo, però, va registrato che alcuni produttori storici, legati alla “scuola di Gerola” - quella dei mitici casari del passato - non ci sono più. Vuoi per cessazione dell'attività d'alpeggio, come nel caso della famiglia Manni (un abbandono - motivato da cause famigliari - che segna la fine di un'epoca), vuoi perché taluni hanno ceduto alle pressioni (per utilizzare un'espressione eufemistica) del suddetto establishment e hanno disertato il campo dei ribelli del bitto. Restano i produttori che hanno saputo da tempo rendersi indipendenti dal sistema, operando la trasformazione del latte anche in inverno, non facendosi sedurre dalla logica dei numeri e della trappola dei volumi fisici di produzione.

In questo contesto si affacciano dei giovani alle prime esperienze (ne parleremo in un prossimo articolo) ma si consolidano anche delle esperienze che, non essendo riconducibili alla linea genealogica “blasonata” della Valgerola, erano rimaste ingiustamente un po' in ombra. Fino a qualche anno fa i produttori provenienti dalla sponda retica della bassa Valtellina (nota come la “costiera dei cèch”) rappresentavano ancora una categoria “in osservazione” (ci si chiedeva se avrebbero mai potuto raggiungere il livello della "scuola di Gerola").  Resisteva, anche tra i ribelli del bitto,  il mito delle valli del Bitto e dei casari di vecchia scuola. Ma il mito era ormai esaurito. Anche noi non ce ne siamo accorti in tempo e abbiamo contribuito a rinverdirlo fuori tempo massimo. Le condizioni che lo avevano costruito non esistevano però più: il sistema d'alpeggio era radicalmente cambiato, non c'erano più i casari e i pastori professionisti di un tempo ma un sistema che si regge su famiglie che esercitano. anche per il resto dell'anno, l'attività di allevamento e caseificazione. Dove non c'è questa struttura famigliare è giocoforza ricorrere a personale raccogliticcio, con esiti a volte incerti. I risultati di questa trasformazione ci dicono che, anche in queste nuove condizioni, si può continuare a raggiungere l'eccellenza del passato. Questa è la buona novella che vale più di un mito sbiadito.


La casera dell'alpe Bomino vaga


Ai vecchi casari sono subentrati giovani e donne che, pur operando nell'ambito della propria azienda, sono casari a tutti gli effetti, lavorando il latte (e non poco) tutto l'anno. Un tempo, quando la famiglia aveva 1-5 vacche e tutto era inscritto nel quadro di un'economia di sussistenza, il latte lavorato era ben poca cosa anche perché,  in inverno (a partire dalla fine dell'Ottocento), lo si consegnava alla latteria di paese dove spesso operava un casaro salariato. In precedenza, in inverno, le vacche erano asciutte o fornivano il latte ai vitelli. I contadini (le contadine) lavoravano in proprio un po' di latte sul maggengo, nei periodi precedenti e seguenti all'alpeggio. Ma producevano solo formaggette magre per uso famigliare che non richiedevano professionalità.  In estate le bestie da latte (capre comprese)  erano affidate ai caricatori d'alpe in cambio di denaro (proporzionale alla loro resa in latte). Pochi erano i casari capaci di manipolare quintali di latte, di produrre grosse forme di formaggio, ed erano ben pagati. Ma tutto questo è cambiato e le condizioni perché la tradizione continui oggi sono molto diverse: oggi è importante che i casari (spesso le casare) possano produrre formaggi e latticini di qualità estate e inverno. Il che significa valorizzare al meglio anche la produzione artigianale invernale, che deve sempre più differenziarsi da quella industriale, qualificandosi in quanto ottenuta dal latte della propria stalla, dove l' alimentazione, la salute e il benessere degli animali sono ben diversi da quelli delle grandi stalle che producono latte per l'industria (di qualità inferiore, non fosse altro per la sosta nei tank di refrigerazione ). 

La crescente diffusione, nelle piccole stalle che lavorano il proprio latte, di pezzata rossa, bigia alpina e bruna originale, marca questo orientamento qualitativo e diventa un elemento chiave anche da comunicare al consumatore. Non solo queste razze, grazie alla loro "duplice attitudine", si prestano molto meglio alla gestione d'alpeggio (garantendone la continuità) ma - anche in fondovalle - caratterizzano e rendono possibile un modello fatto di ricorso minimo ai mangimi, migliore fertilità, maggiore durata in stalla, minore incidenza di malattie, minor uso di farmaci. Tutti aspetti che favoriscono la qualità del latte (da non considerare solo come titoli di grasso e proteine e altri parametri "igienico-industriali"), il rispetto dell'animale, dell'ambiente e di una cultura.


Le valli del Bitto: un mito da ricontestualizzare


Le valli del Bitto costituivano indubbiamente un sistema molto forte, che seppe sopravvivere - almeno per un certo periodo storico - alla crisi del sistema di alpeggio (e di produzione del bitto) delle altre valli della bassa Valtellina. Dove si produceva bitto ce lo illustra la seguente tabella, che si riferisce alla sola provincia di Sondrio. In realtà la stessa fonte, di inizio Novecento (l'Inchiesta sui pascoli alpini della Lombardia), indicava come la produzione di questo tipo di formaggio fosse molto estesa in Valbrembana (33 alpeggi, mediamente più grossi di quelli valtellinesi), nella lecchese alta Valvarrone (3 alpeggi) e anche in qualche alpeggio delle comasche val del Liro e valle Albano (Lario occidentale).  Non solo ma le vicende degli alpeggi tra XVI e XVIII secolo, richiamate nel precedente paragrafo, ci dicono che brembani e valsassinesi hanno caricato per secoli gli alpeggi della valle del Bitto dove producevano formaggio grasso che veniva poi commercializzato a Lecco e Bergamo. Gradualmente gli elementi locali (peraltro, spesso, di origine valsassinese e bergamasca, come indicato dai cognomi) sono subentrati ai bergamini transumanti della Valsassina e Valbrembana nella conduzione degli alpeggi della valle del Bitto, intraprendendo anch'essi la produzione del formaggio grasso di eccellenza.


Tabella  – Alpeggi in provincia di Sondrio con produzione del bitto (Inchiesta sui pascoli alpini della Valtellina, 1903-1904)
Valle alpeggi con prod. bitto vacche da latte capre alpi con capre
Val Lesina (Comuni: Delebio, Andalo, Rogolo) 7 6 393 410 6
Val Masino (Ardenno, Buglio in Monte, Val Masino, Civo) 34 12 798 660 11
Val dei Ratti (Comuni: Novate Mezzola, Verceia) 6 2 152 100 2
Val Tartano (Comuni: Campo Tartano, Forcola) 22 20 1330 637 10
Val del Bitto (Comuni: Gerola Alta, Pedesina, Bema, Rasura, Albaredo, Cosio) 23 23 1384 1093 14
Val Madre/Val Cervia/Val Livrio (Comuni: Fusine, Cedrasco, Caiolo) 22 16 969 1315 16
Val Ambria (Comuni: Piateda)
5 1 140 80 1
Totale 119 80 5166 4295 60

Elaborazione sui dati riportati in: A. Serpieri, "Relazione sui pascoli alpini valtellinesi", in: Società agraria di Lombardia, Atti della Commissione d’inchiesta sui pascoli alpini. I pascoli alpini della Valtellina. Volume I, Fascicolo III, Milano, Premiata Tipografia Agraria, 1903. pp. 1-128.



Tra le diverse valli interessate alla produzione del formaggio grasso d'alpe delle Orobie, una sicura importanza (12 alpeggi) era rivestita dalla val Masino, valle che non appartiene alle Orobie ma bensì alla Rezia, più famosa per le sue pareti granitiche e il bouldering che per gli alpeggi. Essa costituiva l'eccezione alla "orobicità" del bitto. Arrigo Serpieri (2) ci informa anche che : “L’alpe Granda appartiene al comune di Ardenno […] si fabbrica formaggio grasso, tipo Bitto, che trova smercio a Morbegno”. Le altre undici alpi della val Masino dove si produceva formaggio grasso tipo Bitto (in forme del peso di 16-17 kg), lo vendevano  "al famoso mercato di Branzi, nell’alta valle Brembana". A quei tempi (non era stata ancora istituita la mostra dei formaggi di Morbegno e non era stata ancora realizzata la casera sociale dei caricatori d'alpe di Morbegno) la stragrande maggioranza del bitto (tutto quello della val Tartano e delle altre valli orobiche valtellinesi ad est di essa e parte di quello della stessa valle del Bitto) era venduto come branzi (ai Branzi) ed era stagionato a Bergamo.



Alpeggi eroici


Solo in 12 alpeggi della val Masino su 32 si faceva bitto. Perché? La risposta è semplice: si trattava di alpeggi di limitata estensione, fazzoletti di pascolo tra le rocce, ma cresce un'erba sopraffina e vi è grande abbondanza di acqua.  Per produrre bitto servivano 40-50 vacche come minimo (le produzioni giornaliere non superavano i 5 kg per capo). Questo spiega perché in val Masino la produzione era possibile solo negli alpeggi migliori e più grandi.  In questa valle persino le casere e i ricoveri per gli animali sono in mezzo o sotto la roccia come illustra bene la famosa "stalla nella roccia" della Qualida (vai a vedere l'articolo di Ruralpini). Alpeggi “eroici” dunque, spesso sopra i 2 mila metri.

Chi sa bene queste cose perché le ha vissute in gioventù, è Samuele Martinoli - classe 1964 - caricatore dell'alpe Bomino soliva. Samuele è un cèch (così gli orobici chiamano i retici, che a loro volta li qualificano come maroch),  un allevatore di Cevo,  frazione del comune di Civo, già dentro la val Masino. Dal 2000 (con l'interruzione di un anno, quando ha caricato l'alpe Lago di Albaredo) viene in val Bomino. Una scelta motivata dal fatto che in val Masino l'alpeggio, già in passato "eroico", era entrato in piena crisi: mancanza di strade d'accesso, forti pendenze, fabbricati primitivi, baite minimali. In questa stagione calda 2017 che, nonostante non si possa parlare di siccità vera e propria, vede una produzione di erba scarsa per via della pochissima neve e del caldo di giugno, è comprensibile che Samuele rimpianga la sua val Masino. Che, però, la moglie Donatella descrive nei seguenti termini:


In val Masino gli alpeggi erano belli alti, senza niente; le casere, però, c'erano, erano scomode, ma c'erano. Ho iniziato nel 1993, quando sono arrivata in Valtellina, eravamo su all'alpe Spluga, sopra Cevo, c'erano capre anche se non erano nostre, facevamo bitto.


Alla crisi dell'alpeggio è corrisposta in val Masino anche quella dell'allevamento stanziale. Osserva Samuele:


Al mio paese [oggi di soli 190 ab.] avevamo 200 capre. Morti i vecchi le capre sono sparite. Non c'è più niente. In tutta la val Masino ci sono solo io con le mie mucche e, per il resto, c'è solo un giovane - vicino a San Marino - che ha una ventina di mucche, una settantina di capre e una cinquantina di pecore. Una bella stalla nuova, l'agriturismo, il Sasso Remer, ma in estate tiene tutto a casa.


Bomino vago: baite e barech (archivio Ruralpini, 2007)


Le tradizioni d'alpeggio erano comunque ben radicate in val Masino. Samuele ha fatto alpeggio dall'età di 14 anni (come cascìn, pastorello). A 16 è stato promosso a  pastore e ha esercitato in numerosi alpeggi della valle (ne snocciola i nomi come in una litania). Poi, nel 1994, quando si è sposato con Donatella Auguadri, ha creato la propria azienda, dotata di una stalla moderna per una trentina di capi.


Samuele Martinoli al pascolo (archivio Ruralpini, agosto 2003)


Per qualche anno Samuele ha utilizzato Bomino “vaga” con altri soci (tra cui Fausto Moiola, che era anche casaro), poi è venuto al “solivo” come “rilevatario” (affittuario). Da cascìn a rilevatari, tutto il cursus onorum di un om de munt.
I proprietari di Bomino "soliva" sono dei privati della frazione Nasoncio di Gerola, da dove, poco a monte dell'abitato sparso, inizia la pista forestale che risale la val Bomino e arriva sino alle casere.
Samuele, in quanto cèch, ovvero proveniente dalla sponda retica, quella delle vigne e dei “contadini” (anche se lui, come altri, è om de munt), era guardato dall'alto in basso dai caricatori e casari della Valgerola, terra pastorale e un po' altezzosa. Ma oggi la “puzza sotto il naso” dei gerolesi è fuori luogo. La scuola dei maestri casari del bitto si è estinta e diversi caricatori/casari di matrice gerolese (residenti nel fondovalle valtellinese, come altri originari delle valli) hanno ceduto alle pressioni dell'agroindustria e dell'establishment politico-imprenditorial-amministrativo, tradendo la storia dei loro avi. Quando non si ha il coraggio di difendere un'eredità è giusto che essa passi ad altri.



La prima casara del bitto


Donatella, nata e vissuta a Milano, seppe inserirsi in modo quasi sorprendente nella realtà dell'alpeggio e della caseificazione. Donna di poche parole, ma indubbiamente energica e decisa (un avo, capitano degli alpini del battaglione Morbegno, è stato eroe di guerra, pluridecorato con due medaglie d'oro, di cui una alla memoria). Donatella imparò ben presto a caseificare in alpe quando - a differenza di oggi - di donne casare non c'era l'ombra. Nessuno avrebbe scommesso che una donna, per lo più milanese, sarebbe riuscita ad “andare avanti”. Così i vecchi casari, convinti che tanto non li avrebbe “rubati”, non le lesinarono consigli: “devi fare così, fare cosà”. Se, da una parte, ridevano, dall'altra erano probabilmente stupiti e ammirati (conoscendo un po' la mentalità degli anziani).

Fatto sta che Donatella divenne la prima casara del bitto (“univamo il latte di capra a quello di mucca, non si chiamava bitto ma era uguale”). Anno dopo anno - dal 1994 ad oggi - il suo formaggio è diventato uno dei più apprezzati “storici ribelli”. Non ama vantarsi, ma neppure esibire falsa modestia (“ho migliorato perché... sbagliando si impara a quagiare, ma in realtà mi veniva bene anche all'inizio”).

La figlia Serena, che solo lo scorso anno ha finito le scuole (diplomandosi in ragioneria), spera di seguire le orme della madre. La ragazza misura le parole (come la madre) e, a sentirla parlare mentre munge con calma, pare molto più grande della sua età. Scandisce le parole in modo tranquillo e ponderato ma si intuiscono facilmente un carattere fermo e le idee chiare che contrastano con la corporatura minuta. Ha una grande passione per le mucche e l'alpeggio (“La mia razza preferita à la valdostana, la castana”). Se proprio deve "salvare" un'altra razza sceglie la bigia. In tema di razze la famiglia è comunque molto pluralista. Samuele è ancora dell'idea che la bruna (brown swiss) "sia buona da mungere... però anche le pezzate rosse ne fanno di latte". Quanto alla bruna originale dice di essere stato tentato, ma per ora resiste dissuaso da un commerciante di bestiame. Donatella è agnostica, ritenendo che ogni razza abbia i suoi pregi.

Serena ha idee chiare anche sull'economia dell'azienda ("buona parte del guadagno in inverno se ne va per comprare il fieno, per mantenere gli animali; noi non abbiamo terreni e dobbiamo comprarlo, ma anche chi ha i terreni ha dei costi per produrre il fieno e l'alpeggio è un aiuto"). Nonostante ciò preferisce parlare del proprio futuro in modo prudente. “Mi piacerebbe continuare ma... dipende dai mercati; se migliorano le cose, se si lavora per qualcosa di più della sopravvivenza”. Poi  aggiunge che: "nella stalla alcune cose avrebbero bisogno di essere modernizzate, mungiamo ancora con il secchio [a macchina ma senza la linea del latte che lo trasporta direttamente al locale di conservazione/lavorazione]".




Serena conferma l'impressione diffusa che oggi, a fianco di molti "bamboccioni", ci sono ragazzi e ragazze molto seri, forse più che nel passato, sovente un po' troppo mitizzato. È persino severa contro quei ragazzi che: "dicono che non c'è lavoro, poi quando è il momento di lavorare non ci sono, ti dicono che vanno via da un giorno all'altro".  



La ragazza aiuta la mamma nella lavorazione del latte (ad estrarre  la cagliata e a “tenere su la grana”, operazione quest'ultima che non richiede particolare attenzione ed esperienza ed affidata anche un tempo ai ragazzi). Forse potrebbe ormai fare tutto da sola (o almeno provarci). Ma Donatella, che ammette di essere “un po' gelosa”, non lascia che la figlia, almeno per ora,  “tocchi” più di tanto.



Ho così scoperto che, mentre la successione (nel compito di "quagiare")  avveniva abbastanza facilmente se da padre in figlia (quando le ragazze erano sui quindici anni, vedi Cristina Gusmeroli, Sonia Marioli, Antonella Manni), quella da "madre in figlia" è più complicata (e si capisce il perché).  Del resto, per motivi simili, non avveniva quasi mai da padre in figlio. I figli dovevano "rubare" i segreti del mestiere da altri.
Quando chiedo a Serena se ha già provato ad eseguire la salatura delle forme la ragazza si schernisce: “Lo fanno la mamma, e anche il papà. Ci vuole la mano, se no si fanno solo disastri”.



Mamma Donatella da qualche anno lavora il latte anche in inverno: “prima lo portavamo alla latteria del paese vicino, poi hanno chiuso”. “Faccio quei matüscin [formaggetta a pasta cruda a forma di focaccina con sottocrosta che tende a liquefare], vanno molto bene” . Serena pensa che bisognerebbe provare anche a fare lo yogurt. Pur essendo legata alla tradizione la ragazza si preoccupa di cogliere le opportunità di valorizzare il buon latte della mucche di famiglia anche con prodotti “nuovi”.

Papà Samuele appare un po' scettico e un po' sfiduciato mentre elenca, con tono rassegnato, tutte le difficoltà e le minacce dell'alpeggio


Non si trovano più mucche da latte da caricare, sugli alpeggi caricano bestie da carne per le speculazioni [qualche giorno dopo l'intervista è scoppiato uno scandalo con trenta indagati dalla procura di Sondrio], come in val Tartano, dove alcuni pascoli sono andati a una ditta di Parma che ha cinquemila capi. Le stalle un po' grosse o caricano loro senza aver bisogno di altre bestie o lasciano a casa le mucche da latte anche in estate.


Ma i problemi non sono finiti: "quest'anno c'è poca erba... ma è così da anni”. Come molti allevatori lamenta anche che chi si fa avanti per ottenere il lavoro, poi si tira spesso indietro: " ci si alza alle cinque, non c'è sabato, non c'è domenica, non c'è discoteca ... per fortuna che quest'anno ho trovato un aiuto che viene della val Trompia" (il signore con la maglia gialla nella foto sotto).



Samuele pensa che la figlia, qualora trovasse nel frattempo un lavoro,un , non salirà più in alpe il prossimo anno. Lo dice in modo un po'scaramantico perché, sotto sotto, vorrebbe che continuasse.  Pur con le difficoltà snocciolate accarezza anche un sogno per la "sua" val Bomino: in questa bella valle isolata, dove non esistealtro al di fuori di due casere e di qualche baita, dove oggi non passa quasi nessuno (“tranne qualche amante del rampichino”), Samuele ipotizza la realizzazione di un'attività agrituristica (“... se si riuscisse a farla conoscere”). Un progetto del tutto ragionevole considerata la bellezza della valle, la sua breve distanza da Morbegno (ma anche dal passo di San Marco), la grande visibilità dello "storico ribelle" che ha molti estimatori, tra cui importanti associazioni (Slow Food, Fai).



La casera di Bomino soliva


Il progetto dell'agriturismo in alpe è affascinante ma è ora che si deve aiutare i Martinoli (e i loro colleghi) creando le condizioni perché Serena (e i suoi coetanei) possano continuare nell'attività che amano (se non la amassero avrebbero già manifestato la volontà di intraprendere altre strade). Cresciuta alla scuola di mamma Donatella, che si era fatta le ossa all'alpe Spluga di val Masino "rubando" il mestiere ai vecchi casari,  Serena rappresenta una promessa che lo “storico ribelle” non può permettersi di perdere.

Non è impresa disperata perché se è vero che il mercato va creato, o quanto meno ampliato, è anche vero che la società valli del Bitto benefit sta già dandosi parecchio da fare, e con buon successo, per valorizzare i prodotti estivi ed invernali dei contadini che ad essa fanno riferimento. 

Con la prossima apertura a Morbegno le opportunità di valorizzazione della produzione invernale si amplieranno. Un modo per dare un futuro ai sogni (tenuti prudentemente celati) di Serena ma anche per non far morire le speranze di tanti altri che, come dice papà Samuele, in assenza di prospettive nuove: “Vanno a lavorare fuori, pur avendo la famiglia delle belle stalle”.


 
Note

(1) C.Ruffoni “La storia degli alpeggi e del formaggio bitto. La grande svolta - l'età moderna -” in M. Corti, C. Ruffoni, Il formaggio val del Bitt, la storia, gli uomini gli alpeggi. Come nasce un mito caseario. Ersaf, Milano, 1999).

(2) A. Serpieri, "Relazione sui pascoli alpini valtellinesi", in: Società agraria di Lombardia, Atti della Commissione d’inchiesta sui pascoli alpini. I pascoli alpini della Valtellina. Volume I, Fascicolo III, Milano, Premiata Tipografia Agraria, 1903. pp. 1-128.


Lo "storico ribelle" ha bisogno dell'aiuto di tutti coloro che lo ammirano e credono al significato dei valori e dei modelli che incarna. Si può aiutare in vari modi.

1) Partecipare alla campagna di azionariato popolare
Dopo il cambio di statuto per divenire Società Benefit, secondo la nuova legge in vigore dal 1 gennaio 2016, la Società Valli del Bitto riapre la campagna di azionariato popolare. Società benefit è quella che non mira solo al proprio utile ma a vantaggi per la società, il territorio, l'ambiente.La Società Valli del Bitto punta solo alla sostenibilità economica e non al lucro. Senza di essa non potrebbe conseguire i propri scopi che sono in primo luogo garantire - attraverso la valorizzazione economica - la sopravvivenza del formaggio "storico ribelle" (ex-bitto storico) con tutto il suo sistema di produzione in alpeggio che rappresenta un monumento di cultura e di biodiversità. Lo "storico ribelle" è Presidio Slow Food, il presidio che - a detta di Slow Food - incarna forse al meglio il principi del cibo "buono - pulito - giusto". Tutti possono partecipare a questa Società che incarna l'ideale dell'agricoltura etica sostenuta dalla comunità che, a sua volta, sostiene il territorio. Si diventa soci anche solo con 150€ ( con un tetto di 20 mila €). A tutti i soci viene riconosciuto un "dividendo etico" in natura pari al 2% del capitale sottoscritto e uno sconto del 10% sul prodotto Tutti i soci partecipano all'assemblea e al pranzo sociale. Per sapere come associarsi:  tel. 334 332 53 66 info@formaggiobitto.com

2) Adottare una forma in dedica vai a guardare qui

3) Offrirsi come volontari per le varie attività culturali e sociali svolte dalla società valli del Bitto Benefit e per  costituire un'associaizone di sostenitori dello storico ribelle (scrivete a redazione@ruralpini.it)                 


martedì 18 luglio 2017

Tesori delle Orobie ... dal bitto ribelle ai vigneti


(17.07.17) La scorsa settimana la carovana del "Viaggio sulle Orobie" (terminato ieri) ha fatto tappa al Centro del bitto storico ribelle. Uno dei tesori più preziosi delle Orobie. Una mattinata intensa che ha veramente regalato qualcosa  ai presenti. L'ambientazione era ideale per concretizzare lo spirito del "Viaggio": un incontro di persone di diversa estrazione unite dall'amore per la montagna, la cultura, l'arte, il cibo autentico che racconta un territorio, la sua anima, la sua storia. Ma ora bisogna fare qualcosa perché questa Dorsale viva in modo continuativo.


La quinta edizione del "Viaggio sulle Orobie" un trekking ideato da Emanuele Falchetti, capo servizio della rivista Orobie, ha avuto per tema "I tesori della DOL".  Ma cos'è la Dol? La Dorsale orobica lecchese, in realtà la Dorsale occidentale orobica in quanto interessa tre provincie lombarde. Una "spina dorsale" della storia e della realtà lombarde. Ideata, promossa, rilanciata da lecchesi era però ovvio che la chiamassero così.



Sopra: i vigneti dell'azienda Lurani Cernuschi ad Almenno San Salvatore, con lo sfondo delle ultimi propaggini della Dorsale occidentale orobica . Al centro il monastero gotico-rinascimentale di San Nucola, "avvolto" dai vigneti. Qui è terminato il "Viaggio sulle Orobie" ieri 16 luglio 2016. Ad un estremo della dorsale gli alpeggi e il grande formaggio "storico ribelle", all'altro una secolare azienda vitivinicola e gli strepitosi monumenti di Almenno, l'antica Limania che rivaleggiava con Bergamo. In mezzo tanta storia, tanti luoghi pieni di fascino e altri 8 formaggi tra Dop e Presidi Slow Food (ma ce ne sono anche altri) a caratterizzare un territorio con la più alta concentrazione di tipologe casearie al mondo.


Un po' di storia della Dol
La Dol nasce negli anni '90. I padri hanno un nome e un cognome preciso: Angelo Sala (giornalista prematuramente scomparso) e Giacomo Camozzini, dirigente della comunità montana Valsassina, Valvarrore, Esino e Riviera. Sono passati più di vent'anni e va precisato che allora non esistevano le app da scaricare sugli smart-phone (non esistevano neanche gli smart-phone). Così vennero realizzati due prodotti: una mappa e un'agile guida di piccolo formato rilegata con una robusta costa. Questi strumenti per lo standard dell'epoca erano innovativi ed efficaci. La mappa è ricca di informazioni e facilmente consultabile. Per la prima volta alpeggi, caseifici d'alpe, nuclei rurali ed edifici rurali isolati di pregio erano inseriti nella simbologia turistica. L'ARF di Lecco (ora Ersaf) provvide, sulla base di un finanziamento europeo (obiettivo 5b per chi se lo ricorda), a realizzare la segnaletica e la cartellonistica (se ne occupò Sergio Poli). La Dol era intelligentemente articolata in tre tematismi.


1) le vie della storia: da Colico a Premana (il riferimento è alla "Linea Cadorna". A Nord e da Morterone alla Passata (passo sulla Dorsale nei pressi del Resegone) con riferimento alla frequenza in quest'ultima zona di numerosi cippi confinari risalenti al XVIII sec.;

2) le vie del ferro: da Premana al rif. Grassi (bocchetta del Camisolo) con riferimento alla presenza di antiche e numerose miniere di ferro e dell'attività di prima lavorazione nelle fucine (oggi sopravvive la produzione di articoli quali coltelli, forbici, attrezzi da alpinismo e campanacci a Premana);

3) le vie del latte (dai piani di Bobbio a Morterone) con riferimento all'importanza secolare degli alpeggi e dell'attività casearia dei bergamini transumanti


Una Dol casearia

In vista dell'Expo il sodalizio dei formaggi "Principi delle Orobie" predispose un progetto di valorizzazione turistica della dorsale occidentale orobica. Pur nella focalizzazione su alpeggi e caseifici il progetto, articolato su diversi itinerari che presuppongono anche una percorrenza "integrata" (navette), puntava a mettere in risalto tutti gli aspetti di attrattività della Dorsale. I materiali utilizzati per presentare il progetto sono stati poi pubblicati in parte dalla rivista "Quaderni brembani" (M. Corti, Sulle vie dei formaggi “Principi delle Orobie” Appunti per un progetto di valorizzazione multifunzionale del territorio alle falde del “Tre Signori” in chiave Expo 2015, Quaderni brembani, n. 12, a. 2104, pp.149-164, scarica il PDF)


Locandina dell'incontro del 23 novembre 2013 a Gerola

L'insieme degli itinerari e dei punti di interesse mappati su Google Earth mettono in evidenza come la DOOR  (Dorsale occidentale orobica) rappresenti una "porta girevole" che consente di entrare e uscire da/per tre sistemi turistici forti: Bergamo (città d'arte/ mura Unesco/terzo aereoporto d'Italia), Valtellina (Trenino del Bernina Unesco,  vigneti eroici, sistema MTB alta valle connesso reti dalla Germania), Lago di Como (soprattutto centro lago con Bellagio, Tremezzo, Varenna mete internazionalmente note). I sistemi degli alpeggi, formaggi miniere storiche, antiche vie, testimonianze della storia, della fede, dell'arte (via Priula, pittori Baschenis, "Linea Cadorna") rappresentano di per sé un importante risorsa turistica nell'ottica di un turismo innovativo che usa i piedi e la bici non solo come strumenti di attività fisica e di "percorsi nella natura" ma come vettori di un turismo culturale ed enogastronomico "slow", di scoperta, di immersione  nelle realtà oggetto di interesse, fuori dalla superficialità e dalla compulsività dei ritmi del turismo "convenzionale" che preclude conoscenza, esperienza non preconfezionata e relazioni umane.

Anche la Dorsale interpretata dai Principi rappresenta un sistema articolato. A Nord le vie "del ferro e dello storico formaggio grasso", a Sud le "vie della pietra e dello stracchino" (con riferimento alla produzione di "stracchino di Gorgonzola", "robiole", "quartiroli" ma anche alla "civiltà della pietra" che a Morterone, in val Taleggio, in valle Imagna ha prodotto una pregevole e
originale architettura rurale).
Anche nella versione "casearia" della Dorsale in punto di snodo è rappresentato dalla bocchetta di Camisolo. A differenza della Dol, impostata dalla Comunità montana della Valsassina (che per ovvi motivi si arrestava ai limiti amministrativi dell'ente), la Dorsale dei Principi supera la Costa del Pallio e scende in Valle Imagna (a Fuipiano o a Corna).

Il link sotto rimanda alla mappa della Via n. 1 che interessa la Dorsale con un anello ad 8 che, a differenza della Dol (che segue in linea di massima il filo della cresta), si appoggia ai due versanti con puntate a valle per fare tappa presso paesi, caseifici, luoghi di interesse storico e artistico-culturale (vedi l'attraversamento della val Biandino con l'oratorio della Madonna della neve al monte [alpe] Sasso). Un percorso di non pochi giorni (o da effettuare a "puntate") che vuole incitare alla scoperta di tanti aspetti poco Conosciuti della nostra Dorsale.



Cosa ne è stato della Dol?

Come succede a tanti progetti, una volta terminata l'operatività e i finanziamenti anche per la Dol è subentrato l'oblio. La porzione di tracciati dalla bocchetta di Trona verso Sud continua ad essere frequantata. I sentieri del cai sono oggetto di manutenzione e di cura della segnaletica (potrebbe essere più assidua). Il ramo Nord della Dol che dalla val Varrone punta a Colico alle falde del Legnone è stato (specie nei tratti più in quota ed espposti, lasciato all'incuria. Interi tratti sono inagibili o pericolosi (quantomeno all'escursionista senza pratica alpinistica) . La cartellonistica ha subito le ingiurie del tempo e l'esposizione agli agenti atmosferici. Quanto alle "Vie dei Principi"
il progetto venne predisposto per tempo e anche pubblicizzato ma gli enti Valtellinesi che stavano spartendosi le risorse dell'Expo adottarono la tattica dell' "adesso è troppo presto/adesso è troppo tardi". Preferirono sprecare non piccole risorse con iniziative effimere a Milano o comunque di comunicazione fine a sé stessa. Una delle difficoltà di far decollare un progetto del genere consistette anche nella logica provincialistica, che affidava alle singole Camere di Commergio la regia delle iniziative Expo. Quanto alle iniziative di livello regionale i fondi vennero tagliati e non si fece quasi nulla. Così è restato tutto sulla carta.



La "nuova" Dol. Segue rigorosamente la linea di cresta proseguando dal Resegone a Valcava e di qui giù sino alla Roncola in valle Imagna. Non è stato considerato il braccio a Nord (da Premana a Colico). Sono stati toccati i rif. Falc. Grassi, Ratti-Cassin, Resegone.


Nuova vita per la Dol


Benvenuta quindi l'iniziativa di Orobie che ha riportato l'attenzione sulla Dorsale. Nella progettazione del "Viaggi sulle Orobie 2017" Emanuele Archetti è stato affiancato da tre personaggi lecchesi: Ruggero Meles, Carlo Limonta, Luca Redaelli. Meles è autore di diverse biografie di alpinisti lecchesi, coautore del volume Alpinistico pionieristico tra Lecco e la Valsassina (con Piero Buzzoni e Giacomo Camozzini), è anche coautore del Movis, biblioteca multimediale della montagna.  Carlo Limonta, bergamasco di nascita, da fotografo è diventato documentarista concentrando il suo interesse sulla montagna. Luca Redalelli è autore e attore teatrale  che si è cimentato con i classici ma è frtemente impegnato nel "teatro della favola" rivolto ai ragazzi ma non solo. Nella foto sotto Limonta intervista Paolo Ciapparelli (il "guerriero del bitto") nella magica casera dove si stagionano e si conservano le forme di storico ribelle. L'intervista è stata realizzata prima del'arrivo della carovana de "Il viaggio sulle Orobie" e sarà utilizzata per la realizzazione del film sul viaggio. Non solo riprese di paesaggi quindi ma anche approfondimento dei temi che stanno dietro i "tesori della dorsale". 



Mentre le interviste procedono la carovana è arrivata. Qui Davide Riva prova con iòl coro. Riva è un pianista, organista e compostitore, molto attivo nella valorizzazione dei cori scolastici (compone anche per voci bianche). La "carovana" è composta da artisti (teatro,  fotografia, cinema, musica)  e ha portato al Centro del bitto storico ribelle  presenze in assoluta sintonia con il luogo: un posto dove  insieme al formaggio si valorizzano e si scambiano le idee e si difendono valori e amore per la montagna. Dove si percepisce una solennità, un senso di cose vere e profonde che induce a riflettere, che fa uscire dalla casera un po' cambiati (come quando si visita un santuario e ci si lascia coinvolgere dalle energie spirituali del luogo).

Una volta che i partecipanti al "Viaggio" si sono "acclimatati" si è dato inizio a un rito importante: in onore della carovana viene aperta una forma di 10 anni. In realtà la forma aveva qualche giorno di meno (era stata prodotta il 24 luglio 2007 all'alpe Ancogno soliva da Carlo Duca, un artista dello storico formaggio). I partecipanti hanno assistito all'evento osservando un religioso silenzio. Nessuno ha detto: "silenzio", ma tutti hanno capito, sintonizzandosi tra loro, che i gesti che l'officante stava compiendo erano veramente qualcosa di importante. Di fronte a una società, ad una cultura che consuma tutto in fretta svuotandolo di senso è un atto quasi religioso partecipare al rito dell'apertura e dell'assaggio di un formaggio che ha "aspettato" un'eternità (come 100 anni per un vino) a farsi gustare.



Paolo, quasi sorpreso e un filo imbarazzato da tanto silenzio, ha pensato di sdrammatizzare con una battura che, in realtà, stabilendo un paragone ardito ma non fuori luogo ha chiamato in causa vescovi, liturgie e cattedrali (ascoltate l'audio, che è quello originale).  

Tra chi assiste al rito distinguiamo (al centro) Silvia Tropea Montagnosi, esperta sul serio di tutto quanto riguarda la cucina bergamasca, la sua storia, una vera sostenitrice dello storico ribelle, formaggio orobico e non "valtellinese". A sinistra, con la maglia verdina, Ruggero Meles.
Al termine della cerimonia di apertura con la suspance (premiata) della presenza della "goccia" c'è stato l'assaggio. Le particole sono state distribuite ai presenti.


Che lo storico ribelle rappresenti un "tesoro" lo dicono anche i prezzi. Non è stato facile arrivare a questi livelli. Il formaggio non è il vino (ma prima dello scandalo del metanolo il vino era un prodotto vile), il consumatore trova normale che ci siano bottiglie da decine di euro anche al supermercato ma non è ancora disposto a ricompensare le punte di eccellenza (perché non ha gli strumenti per valutare che dietro i pressi super ci sia un prodotto super). Lo storico ribelle è però la punta dell'iceberg di una storia e di una geografia di eccellenza casearia. E può servire a promuovere (per trascinamento di immagine) anche gli altri formaggi orobici. Tutti hanno quindi interesse a far conoscere, attraverso nuove proposte turistiche la loro storia e il loro territorio.


Nel Centro del bitto storico ribelle le perfomance si sono susseguite in rapida successione. Dopo il rito della forma decennale è la volta del concerto per Alphorn di Martin Mayes. Mayes è un cornista particolare: non è svizzero ma scozzese (e risiede a Torino), non ha uno strumento di legno ma di fibra di carbonio. Va riconosciuto che lo strumento di Mayes è molto versatile anche se non tradisce la discondenza sonora dell'originale in legno. Martin, con il suo Alphorn, suona musica jazz. Lo ha fatto anche con concerti a N.Y..
Il rivestimento in legno dello spazio e le  stesse forme vetuste di storico ribelle garantiscono un'ottima acustica. Non solo, ma l'atmosfera risulta particolarmente congegnale ad uno strumento nato sugli alpeggi che produce qui le sue note in presenza delle forme del re dei formaggi d'alpeggio (re non perché fosse migliore di altri ma perché, a prezzo di una lotta strenua ha saputo restare il più possibile sé stesso). Alla fine Martin commenta: "ho suonato in tanti posti ma rare volte mi è capitato di provare un'emozione come qui". Una frase che da sola ricambia tanti sacrifici sostenuti per creare e mantenere questo "santuario" che non è solo del formaggio ma dei valori della montagna
.



È il turno di Luca. La favola teatralizzata che recita è una delle tantissime ispirate al mito dell'Homo selvadego, un mito che qui è di casa. Lo ascoltano con attenzione i ragazzi del coro di Davide Riva (qui, finalmente, di fronte con la maglia azzurra). Le vetuste forme di storico ribelle appese alle travi del soffitto paiono ascoltare anch'esse la fiaba. Non è, del resto, una storia di magia a favola (costruita su materiali folklorici della val Poschiavo) quella recitata da Luca?


Il Selvadego è uno dei simboli dei ribelli del bitto, dell'antica sapienza che non accetta le banalizzazioni, i compromessi che snaturano una bella e antica realtà, come quella del bitto della storia (travisata dalla distorsiva dop). I ribelli anni fa erano gratificati con l'epiteto di "trogloditi" (selvatici quindi!) dai "modernizzatori", da coloro che sostenevano in modo presuntuoso e arrogante che gli alpeggi erano destinati a finire e che per l'intanto si deveva approfittare dei contributi (fin che c'erano)  pompando però le poche vacche da latte alpeggiate con i mangimi e producendo un falso bitto con i fermenti industriali. Va poi ricordato che nella valle del Bitto c'è il museo dell'Homo selvadego che ha valorizzato l'affresco del "Selvatico",  datato1464, opera dei "bergamaschi" (ma provenienti da pochi km in linea d'aria) Simone e Battistino Baschenis. 



Il Selvadego è anche un simbolo della Dorsale, della fondamentale unità di genti e cultura tra i tre versanti che convergono nella mole del Pizzo dei Tre Signori.  Un altro Baschenis (la dinastia dei pittori di Santa Brigida) affrescò qualche anno dopo un'altro Selvadego. Trattandosi di un affresco di una chiesa (quella antica di Santa brigida) venne "cristianizzato" identifico il nostro con Sant'Onofrio. Ma, sotto la tenue "copertura", la natura druidico-sciamanica di questo Selvadego (corruzione della divinità celtica Dagda, il dio della clava magica) è più che palese: lo denuncia il rosario di funghetti allucinogeni (per il "viaggio" sciamanico). Funghetti che peraltro si trovano sui pascoli (Psilocybe) non così rari.
Come se non bastasse il Selvadego ha una cintura di rami di quercia (i druidi erano gli "uomini della quercia") e un bastone (nodoso) a tau che simboleggia gli eremiti. Ma chi erano gli eremiti? Gli uomini della grotta, laddove la grotta è la struttura per il "passaggio" negli altri mondi, quelli dove gli sciamani viaggiavano incontrando gli spiriti che interrogavano per potevano rispondere alle esigenze poste dalla comunità che si rivolgeva loro. 



Nella casera dello storico ribelle molto parla del Selvadego, vero nume protettivo invocato dai ribelli del bitto (che ne hanno tanto bisogno  avendo tutte le lobby e i poteri forti contro di loto). Non molti giorni fa un giovane grafico, gabriele Pino, dopo aver visitato il Museo dell'Homo selvadego e gli alpeggi ha elaborato la sua visione del Selvadego aggiungendo una nuova favola: quando un bambino destinato/a a divenire casaro dello storico ribelle nasce, il Selvadego gli consegna alcuni regali magici e lo inizia con la formula magica "Avrai spalle di roccia e un cuore caldo come il latte". Così nascono le favole, sulla radice di antichi miti. Questo Selvadego ha anche le corna (emblema di forza, fertilità e sovranità, ma anche antenna capace di captare i segnali di una dimensione spirituale superiore). La modernità, che esalta il basso, l'interesse immediato, la conoscenza per far soldi (e non per elevare lo spirito e accumulare sapienza), ha ribaltato il significato delle corna legandolo a storie di mariti traditi e squallori simili. Un meccanismo trasparente di discredito di ciò che era elevato e sacro. Ma non si dia però la colpa al cristianesimo perché Mosé e San Pietro sono stati raffigurati cornuti.

Dopo questa divagazione torniamo alla bella mattinata del 13 luglio. Al santuario dello storico ribelle sono arrivati con la carovana di Orobie anche altri personaggi. Tra questi non possiamo non citare Mario Curnis, il decano degli alpinisti bergamasci (che a 80 anni è ancora impegnato in notevoli scalate e che ha passato una vita tra le Orobie e l'Himalaya).


Poi Carlo Mazzoleni cui si devono i più bei ritratti di casari e alpigiani delle Orobie (basti pensare a quelli di Guglielmo Locatelli scompardo da poco e vero "monumento" delle Orobie casearie). Ora, grazie alla visibilità offerta dal Viaggio (e dai suoi prodotti) si tratta di lavorare per riannodare i fili dispersi. 

Remando sincronizzati (ovviamente nella medesima direzione). Servono una (o più) associazioni con la mission di far vivere la Dorsale raccordando tutti gli attori, promuovendo continue iniziative. Gli spunti non mancano, le intelligenze e le passioni nemmeno. E allora? Cosa aspettiamo?